La crisi arriva dall'America
Scelte ondivaghe, dossier critici: Roma più lontana da Washington. Controproducenti anche gli “ismi” comuni
Nel mondo bipolare, prima della caduta del Muro di Berlino, una media potenza come l’Italia aveva una sua collocazione concordata, godeva della protezione Usa e Nato e si ritagliava un posto confortevole in Europa. Era uno schema in apparenza estremamente conflittuale, ma in realtà caratterizzato da una grande stabilità geopolitica che consentiva anche ad attori non di estremo rilievo sullo scacchiere internazionale di giocare un ruolo significativo e di godere di “rendite di posizione” da parte dell’alleato – e protettore – principale. Grazie a questo “ombrello”, il nostro paese era riuscito a fare del suo equilibrismo politico un punto di forza notevole, con risultati evidenti. Si pensi, ad esempio, al ruolo di primo piano in Medio Oriente e, più nello specifico, in Libano. L’Italia era una potenza al contempo atlantica, ma con un occhio diretto verso il Mediterraneo e l’altro rivolto a est e in particolar modo verso la regione dei Balcani. Strabismo? Al contrario: lungimiranza e capacità da parte della classe politica del tempo di sfruttare al meglio i vantaggi della posizione geografica della nostra penisola.
La caduta del Muro, trent’anni fa, ha obbligato l’Italia a veleggiare in mare aperto senza avere la forza politica ed economica per farlo
La caduta del Muro, ormai esattamente trent’anni fa (il 9 novembre è molto vicino e questo anniversario avrà un significato particolare se pensiamo a quanto accaduto dal 1989 a oggi), ha obbligato l’Italia a veleggiare in mare aperto senza però avere la forza politica ed economica per farlo. Se si guarda a oggi, neanche la nostra posizione geografica, tutt’ora strategica nel Mediterraneo – non è un caso se per i migranti africani in fuga da povertà e conflitti l’Italia è considerata il primo approdo sicuro – riesce a garantirci un ruolo di interlocutore di primo piano nelle crisi dell’area, come in Libia ad esempio. Dove ricercare, dunque, le ragioni di questa “crisi di identità” della politica estera italiana?
Le istituzioni italiane, concepite nel Dopoguerra, fanno fatica a evolversi. La classe politica ha perduto quei filtri e quegli equilibri che le consentivano di gestire la cosa pubblica con autorevolezza. L’economia ha perduto lo slancio della ricostruzione del Dopoguerra, arrivando alla stagnazione attuale, e ha creato pochi campioni industriali nazionali in grado di competere a livello internazionale. In altre parole, si è cercato di vivere di “rendita”, senza rendersi conto che il mondo attorno a noi era attraversato da profondi cambiamenti che hanno marcato una discontinuità totale rispetto al “rassicurante” schema bipolare, espressione di un “conservatorismo” geopolitico che tutto sommato ci faceva comodo.
In questo quadro profondamente dinamico si sono aggiunti fattori esterni non certo minori, come la crescita economica prima e strategica poi della Cina, le ondate di migrazioni con primo approdo sulle nostre coste, la più grande rivoluzione tecnologica e informatica dopo quella della macchina a vapore e l’energia elettrica. Fenomeni di lungo periodo che andrebbero affrontati con approcci strategici indipendenti dai cicli politici, e quindi perseguiti in maniera coerente da governi anche di colori politici diversi, ma che devono avere la barra dritta verso il raggiungimento dell’interesse nazionale. Il presentarsi di sfide così inedite ed epocali ha aggiunto invece ulteriore sconcerto e confusione nel nostro paese. La conclusione è che siamo diventati imprevedibili e timidi nell’affrontare i grandi problemi scientifici, tecnologici e sociali del nostro pianeta e non abbiamo chiari i nostri interessi nazionali e le nostre priorità politico-strategiche.
Tante questioni aperte: sarà difficile per gli Stati Uniti considerare l’Italia un partner “di rango”. Occorre ripartire dai fondamentali
Non ci rendiamo conto che un atteggiamento così “timido” e a volte ondivago, pensiamo ad esempio a tutto il tema delle sanzioni e della solidarietà nelle posizioni assunte dai paesi amici, rischia di essere controproducente e di porci in una posizione di estrema debolezza rispetto ai nostri alleati storici. Pensiamo agli Stati Uniti: che siano guidati da amministrazioni repubblicane o democratiche, aborriscono un interlocutore che sia in continuo cambiamento, inaffidabile, incerto e contraddittorio. Soprattutto se questo è un grande paese come il nostro. L’avvento nelle varie interpretazioni sovraniste, populiste, nazionaliste dell’Amministrazione Trump ha allargato il divario con l’Italia, con una tendenza sempre più marcata a ritenerla irrilevante sullo scacchiere mondiale. Le similitudini con i nostri disparati “…ismi” nostrani non ci avvicinano agli Stati Uniti, come si potrebbe pensare in un primo approccio semplicistico, ma tendono a separarci ulteriormente. In una visione strategica, queste similitudini diventano conflittuali e non complementari. Del resto, l’esasperazione di dinamiche unilaterali e protezionistiche non è logicamente compatibile con una cooperazione più ampia in ambito politico ed economico. Con l’aggiunta che l’America di Trump si può permettere questi estremismi per le ovvie ragioni socio-economiche, e il Regno Unito di Boris Johnson gode ancora di rendite di posizioni storiche e culturali. Per il resto dei paesi europei – con l’Italia in testa – non vi può essere invece altra scelta che aggrapparsi a un’Europa che ancora non c’è o essere confinati a continuare a beccarsi tra loro come i famosi polli di Renzo di manzoniana memoria.
La lista delle questioni aperte e non risolte è lunga e sarà difficile per gli Stati Uniti di Trump, o anche di qualche eventuale interlocutore meno “muscolare” e più conciliante, considerare l’Italia un partner “di rango” come avviene in Europa continentale con Francia e Germania. Senza contare i numerosi dossier “critici” tra Roma e Washington, come il programma del cacciabombardiere di quinta generazione F35, l’intesa (per ora non vincolante) dell’Italia con la Cina per la Nuova Via della Seta, la protezione dei dati e la tassazione delle imprese multinazionali e infine il “vaso di Pandora” che si potrebbe aprire qualora ripartissero i negoziati commerciali verso un “Ttip 2.0”. Gli Usa hanno posto come precondizione l’inclusione del capitolo agricolo nell’accordo, ma l’Unione europea è contraria perché ciò significherebbe aprire il proprio mercato agricolo a prodotti con standard fito-sanitari e di protezione del marchio decisamente diversi. In questo caso, dunque, bene farebbe il nostro paese a giocare di squadra con Francia e Germania anziché invocare improbabili misure protezioniste unilaterali.
Tuttavia, è possibile intravvedere alcuni spazi di manovra. Trump, dopo aver ottenuto già diversi successi sul fronte interno – da ultimo il via libera per la costruzione del muro con il Messico – è alla ricerca di successi in campo internazionale per prepararsi alle elezioni del novembre 2020. I suoi obiettivi spaziano dall’Iran al piano di pace per il Medio Oriente, la Corea del Nord, il Venezuela, il rafforzamento dell’industria della Difesa, inclusa quella spaziale, la gara per la supremazia tecnologica con la Cina (incluso il 5G) ,il ridimensionamento delle ambizioni della Russia di Putin in campo diplomatico e militare, la lotta per la supremazia mondiale contro la concorrenza cinese. Per alcuni di questi temi, l’Italia, ormai con il prossimo governo, potrà e dovrà svolgere un ruolo di comprimario con il nostro più importante e potente alleato, ma deve giocarsi bene le sue carte senza indulgere o farsi fuorviare da dialettiche interne necessariamente di corto respiro e che ci allontanerebbero irrimediabilmente dalle basi tradizionali della nostra politica interna ed estera. Insomma, verrebbe da dire che occorre ripartire dai fondamentali. La crisi italiana in fondo arriva anche dall’America.