Matteo Renzi e Beppe Grillo (foto LaPresse)

Il nuovo fantastico bipolarismo: Parlamento sovrano contro elezioni sovraniste

Valerio Valentini

Renzi è per un governo di transizione, Grillo riscopre la democrazia rappresentativa e dice di volersi affidare allo stesso Parlamento che un tempo voleva aprire come una scatoletta di tonno

Da un lato le elezioni sovraniste, l'eventualità del plebiscito in favore del Capitano. Dall'altro il riaffermare la centralità del Parlamento, con le sue liturgie e i suoi tempi lunghi. Questo, al momento, è il bivio che si para davanti alle forze politiche.
Beppe Grillo e Matteo Renzi hanno scelto la seconda ipotesi. Il comico benedice il ribaltone, l'alleanza con chiunque voglia fermare Salvini. Coerenti sì, noi del M5s, ma fessi no: meglio sopravvivere che essere puri. Questo pensa il Garante, che ora invoca una soluzione in quel Parlamento che voleva aprire come una scatoletta di tonno. Renzi afferma che votare subito sarebbe "folle", e apre a un governo di transizione che scongiuri l'innalzamento dell'Iva (i 23 miliardi ipotecati dalla scellerata manovra gialloverde dello scorso anno) e che approvi le riforme istituzionali.

 

 

Stesso sentiero indicato in fondo da Luigi Di Maio: "Tagliamo subito il numero dei parlamentari, prima ancora di votare la sfiducia al premier Giuseppe Conte", dice in sostanza il capo politico del M5s. Un governo di transizione, insomma, con prospettiva apparentemente ristretta: marzo, al massimo giungo del 2020 e poi voto. Ma è chiaro che le date di scadenza, su un governo del genere, verrebbero scritte con l'inchiostro simpatico: a marzo ci sono le nomine delle più importanti partecipate di stato (Eni, Enel, Terna...), poi il referendum confermativo sulla riforma costituzionale grillina. Insomma, un governo che dovesse nascere ora si proietterebbe almeno fino alla scelta del nuovo presidente della Repubblica, a inizio 2022. Campa cavallo.

  

Ed è per questo che Matteo Salvini si agita, dissimula indifferenza alle logiche del Palazzo ma in realtà fa di tutto per accelerare i tempi. Vuole votare non oltre il 20 agosto la sfiducia a Conte, vuole tornare alle urne a fine ottobre, vuole scongiurare la nascita del governicchio che lo estrometterebbe non solo dal Viminale, ma dalla stanza dei bottoni tanto a lungo agognata. E in questo strano tourbillon di impensabili convergenze, dove la coerenza è un lusso che nessuno può permettersi, anche Nicola Zingaretti invoca un voto rapido. Non si può lasciare il monopolio dell'opposizione a Salvini, dice il segretario del Pd, il quale evidentemente sfrutterebbe la circostanza anche per un radicale azzeramento dei gruppi parlamentari filo-renziani, mettendo in lista uomini di sua fiducia. Domani, al Senato, la conferenza dei capigruppo deciderà sulla calendarizzazione delle mozioni di sfiducia: quella a Conte e quella, presentata dal Pd a fine luglio, contro Salvini. Da quella scelta ne seguiranno altre, e forse qualcosa in più lo si potrà capire.