Quand'è che un leader è un guaio per la democrazia liberale?
Il nazionalpopulismo e le assonanze sbagliate con il passato. Una guida in quattro punti per capire quando preoccuparsi
“La storia non si ripete parola per parola. Però le parole della storia di oggi fanno rima con quelle del passato… La promessa della storia, e la speranza di questo libro, è riuscire a scovare queste rime prima che sia troppo tardi”. Così termina la introduzione di “Come muoiono le democrazie” di Levitski e Ziblatt, entrambi professori di scienze politiche ad Harvard. Scovare le rime tra storia di oggi e storia di ieri… Proviamo, riferendoci alla nostra Italia. Italia dalla politica incomprensibile? Lo dicono tutti. Ma non è un giudizio fondato. Se si esce dalla cronaca inutile del piccolo cabotaggio in Transatlantico e si cerca di entrare nella “storia” si vede subito che dall’inizio del 900 in poi “l’Italia è stata il laboratorio di tutte le correnti che hanno attraversato la società europea” (Giuliano da Empoli “Gli ingegneri del caos”).
Da quando le masse sono entrate da protagoniste nella scena pubblica l’Italia ha anticipato e accentuato tutte le grandi fratture internazionali, dando vita ad esperimenti politici destinati a fare scuola e ad essere replicati altrove. Altro che politica italiana incomprensibile. Richiamiamo alla memoria qualche esempio. Primo. Nel primo dopoguerra, Mussolini capisce che il vecchio conservatorismo non avrebbe retto l’offensiva rivoluzionaria e inventa il fascismo, che troverà applicazione in altri paesi. Alla base di questa sua intuizione, c’è la sua esperienza di rivoluzionario. Lo scriverà Curzio Malaparte: “La tattica seguita da Mussolini per impadronirsi dello Stato non poteva essere concepita che da un marxista”.
Secondo. Dopo il 1945, a Jalta, Stalin ipotizza di dividere l’Italia in due zone di influenza, come la Germania. Poi questa strada non viene seguita, ma la frattura internazionale tra Est sovietico e Ovest americano eserciterà in Italia un peso enorme. Tanto che il 1989 avrà, in Italia, un effetto politico dirompente: scompaiono rapidamente tutti i partiti che avevano dominato la scena della prima Repubblica.
Terzo. Dopo il 1989, l’Italia sarà la sede privilegiata di almeno altri tre esperimenti politici, che avranno ed hanno imitatori. La suggestione della Repubblica dei giudici. “Quando la gente ci applaude, applaude se stessa”. E’ una frase di Borrelli, capo della procura di Milano. Non sono mancati, da allora, i tentativi dei poteri di controllo di fondare la loro affermazione sul “consenso”, categoria tipica della politica democratica. Il localismo secessionista di Bossi e della Lega pre-Salvini. Oggi in Catalogna. Il governo dei tecnici (Ciampi e Monti). Per non dire della “originale” esasperazione della più generale tendenza alla personalizzazione della politica di Berlusconi, che crea dal nulla un partito a vocazione maggioritaria, ma non riesce a garantirgli vita al di là della propria leadership.
La morte di molte democrazie può essere ricondotta alla maggiore affinità che un partito, fondamentalmente pro sistema, mostra nei confronti
degli estremisti, i quali si collocano dalla propria parte dello spettro politico, che non nei confronti dei partiti pro sistema che appartengono
al versante opposto
Ora, Bannon dice che l’Italia è “al centro dell’universo politico”. Non si sbaglia: negli altri paesi occidentali l’esplosione del nazionalpopulismo, attraverso la combinazione di rabbia dei cittadini e sua alimentazione attraverso algoritmi che consentono il microtargeting del messaggio è un fatto relativamente recente. In Italia, da quasi un quarto di secolo, è questa combinazione di furia iraconda e tecniche di microtargeting uno dei fattori fondamentali della evoluzione della vita pubblica. Alla base, naturalmente, ci sono problemi reali. Vecchi – inefficienza della PA con annessa corruzione; divario nord-sud; disoccupazione giovanile; crisi di insicurezza da innovazione tecnologica e immigrazione non governata. Su questi problemi reali, agisce Casaleggio senior. Che capisce prima di altri la potenza dei dati in politica e la conseguente possibilità di costruire un partito nuovo, ispirato dalle preferenze degli elettori-consumatori.
Attenzione però ad assimilare: nazionalpopulismo=fascismo. No. La storia non si ripete. Le rime tra parole di ieri e parole di oggi, quelle, ci possono però servire. L’esame delle crisi delle democrazie del passato fa emergere non similitudini, ma assonanze. Da queste assonanze emergono criteri per valutare se un leader politico rappresenti o meno un rischio per la democrazia liberale. Facendoci aiutare dai già citati Levitski e Ziblatt possiamo individuarne almeno quattro: 1. Scarsa considerazione per le regole del gioco democratico. 2. Negazione della legittimità degli avversari. 3. Tolleranza e incoraggiamento per la violenza. 4. Disponibilità a limitare le libertà civili di avversari e a mettere il bavaglio alla stampa.
Perché è utile tenere a mente questi quattro indicatori che provengono dalle “rime della storia”? Perché i democratici liberali – di sinistra, ma anche di destra – devono sapere che qualsiasi tentativo di addomesticare o almeno controllare il politico con pulsioni autoritarie, finisce con l’accrescere la forza di quest’ultimo… Finisce con “l’abdicazione collettiva”, cioè il trasferimento di autorità al leader che minaccia la democrazia liberale. Esempi? Purtroppo, molto numerosi: per stare all’Italia, gran parte dei liberali nel rapporto con Mussolini. Due le fonti di questa tendenza alla “abdicazione collettiva”: in primo luogo, la convinzione di saper “mantenere il controllo”, dopo l’alleanza… In secondo luogo: la “collusione ideologica”. Che si ha quando si fa leva sul fatto che il programma del leader a rischio autoritarismo contiene soluzioni coincidenti con il programma dei democratici liberali. Prendiamo la situazione italiana. Da un lato, Forza Italia: la Lega vuole la flat tax, esattamente come noi. Quindi, assumiamo come nostra strategia l’alleanza con chi ha programmi parzialmente coincidenti coi nostri. Dall’altro lato, importanti dirigenti del Pd: il M5s vuole aiutare i poveri, col reddito di cittadinanza. L’obiettivo è comune. Perché deriva dagli stessi “princìpi”. Quindi, non ora, ma domani, potremo allearci. Guardando proprio ai “princìpi”, si vedono semmai le robuste fondamenta della alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle: 1. Ostilità alla democrazia liberale. Favore per chi la vuole travolgere e la considera “obsoleta” (Putin). 2. Ostilità all’Ue. Favore per chi la vuole distruggere. 3. Ostilità al multilateralismo e favore per chi lo vuole sostituire con rapporti bilaterali (Cina e attuale Amministrazione Usa).
In conclusione, per proteggere adeguatamente la democrazia liberale è necessario che i suoi sostenitori isolino le forze estremiste, attraverso quello che la politologa Nancy Bermeo definisce “distanziamento”. Come ha scritto Juan Linz (“La caduta dei regimi democratici”) la morte di molte democrazie può essere ricondotta alla “maggiore affinità che un partito, fondamentalmente prosistema, mostra nei confronti degli estremisti, i quali si collocano dalla propria parte dello spettro politico, che non nei confronti dei partiti pro-sistema che appartengono al versante opposto”. La mia è dunque una proposta di alleanza Pd-FI? Purtroppo no, perché la strategia di Forza Italia è forse l’esempio più chiaro, nei grandi paesi occidentali interessati dalla minaccia nazionalpopulista, di “abdicazione collettiva” a favore dei nazionalpopulisti stessi.