Fine di un governo
Salvini ha impresso una torsione presidenzialistica alla politica italiana. Più giocatore che uomo di governo
Salvini ha decretato la fine del governo Conte, auto-sfiduciandosi.
Situazione inedita. Cominciamo dagli atti ufficiali, la mozione di sfiducia. Questa rileva che “l’esame in aula delle mozioni riguardanti la Tav ha suggellato una situazione di forti differenze di vedute, tra le due forze di maggioranza”; che Conte era assente “nel momento delle votazioni sulle citate mozioni, per ribadire l’indirizzo favorevole alla realizzazione dell’opera che egli stesso aveva dichiarato pochi giorni prima nell’altro ramo del Parlamento…”. “… E si è verificata la situazione paradossale che ha visto due membri del governo presenti esprimere due pareri contrastanti”; che “le stesse divergenze si sono registrate su altri temi prioritari dell’agenda di governo quali la giustizia, l’autonomia e le misure della prossima manovra economica”.
Perché Salvini ha fatto questo inedito passo, chiudendo la porta a ogni ulteriore collaborazione con Conte e con il M5s?
La spiegazione è stata fornita dallo stesso Salvini a Conte e riferita da Conte in una dichiarazione dell’8 agosto scorso: “il ministro Salvini, […] mi ha anticipato l’intenzione della Lega di interrompere questa esperienza di governo e la volontà di andare a votare per capitalizzare il consenso di cui il partito attualmente gode”. Conte ha così continuato: “La nota ufficiale, diffusa da ultimo dal ministro Salvini, invoca un ritorno alle urne per restituire al più presto la parola agli elettori”. Conte ha concluso che avrebbe “parlamentarizzato” la crisi, per assicurare trasparenza.
Come valuta questa situazione?
“Nihil sub sole novi”: ne conosciamo di crisi. Questo è il sessantacinquesimo governo della storia dell’Italia repubblicana. Neppure nuova è la situazione di una “crisi al buio”: basti pensare a quello che scriveva Nenni nei suoi Diari nel dicembre 1966 (P. Nenni, “Gli anni del centro sinistra. Diari 1957 - 1966”, Milano, Sugarco, 1982, p. 709). Inediti sono altri aspetti. Una parte del governo, non una forza di opposizione, sfiducia il governo. La sfiducia arriva in piena estate, quindi col timore che si finisca per sfavorire la partecipazione popolare alle elezioni, se si dovesse arrivare allo scioglimento del Parlamento. I motivi della crisi erano da tempo noti (la mozione dice che gli ultimi eventi hanno “suggellato una situazione di forti differenze di vedute” e rileva che le stesse divergenze erano state registrate in precedenza). Poi, la crisi è stata dichiarata da Salvini senza che si siano riuniti gli organi collegiali della Lega Nord e della Lega per Salvini Premier, i due partiti di cui egli è segretario generale.
Ciò che la dice lunga sulla democrazia interna dei partiti.
E sulla personalizzazione del potere in Italia. Non sappiamo quanti sono gli iscritti ai partiti, chi e quando elegge i capi e ne controlla e dirige l’attività, quanto dibattito c’è nei partiti. Insomma, il partito come mero seguito elettorale di una persona, che si sveglia con le elezioni. Così Salvini ha impresso una torsione presidenzialistica alla politica italiana, per cogliere il momento di maggiore debolezza dei suoi alleati, Forza Italia e il M5s, forse anche per spostare l’attenzione dai suoi problemi russi, senza valutare i tempi del paese, ma calcolando solo quelli suoi. Dopo aver usato il governo per un anno come palcoscenico, si mostra più giocatore che uomo di governo.
E’ questo l’aspetto che sta ora preoccupando: le libertà corrono rischi? L’Italia potrebbe diventare uno Stato di polizia o almeno illiberale, visti i rapporti tra Salvini e Orbán?
Partiamo anche qui dalle dichiarazioni: “Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare, fino in fondo, senza rallentamenti e senza palle al piede”, ha dichiarato nel comizio di Pescara l’8 agosto scorso. Qui non si tratta della differenza tra ordinaria amministrazione e governo nel pieno delle sue funzioni, ma di altro, di “pieni poteri”, nel senso che Salvini pensa a un esecutivo che non sia disturbato dai giudici. Il 9 agosto ha infatti dichiarato “non viviamo in una repubblica giudiziaria”. E’ infastidito dalle decisioni giudiziarie che riguardano gli immigrati. Vuole mandare le ruspe, senza controlli dei giudici. Il secondo decreto sicurezza è, in fondo, una reazione alle decisioni giudiziarie sul caso della nave Diciotti. Intanto, cerca di prendersi i poteri del presidente della Repubblica, chiedendo sollecite votazioni, come se il potere di sciogliere le camere spettasse a lui. Ammira Orbán, sostenitore della cosiddetta democrazia illiberale. Contesta l’Unione europea e i vincoli che derivano dai patti che abbiamo sottoscritto.
E veniamo a quel che deve accadere ora.
La sfiducia non può essere messa in votazione prima di tre giorni dalla presentazione. Richiede quindi un esame ponderato, che non può essere affrettato. La ragione delle pause di riflessione imposte dall’ordinamento la spiegava già Tommaso Moro nel suo “Utopia” nel 1516: le decisioni che riguardano lo Stato non vanno prese in modo affrettato, vanno discusse e ben ponderate. Dalla discussione parlamentare e dalla successiva decisione trarrà elementi il presidente della Repubblica, che è il regista delle crisi. Deve compiersi il percorso inverso alla costituzione del governo: all’inizio, nomina presidenziale e fiducia parlamentare; alla fine, sfiducia parlamentare e successiva apertura della crisi. Il presidente sentirà i gruppi parlamentari. Occorre tener conto che il Parlamento è stato eletto da poco più di un anno.
Quindi, non passaggio automatico allo scioglimento, come richiesto da Salvini.
Innanzitutto, lo scioglimento è rimedio estremo: il presidente della Repubblica Saragat dichiarò espressamente “non scioglierò le Camere se non in casi eccezionali” (P. Nenni, op. cit., p. 712). La “capitalizzazione” del voto che Salvini – a detta di Conte – vuole fare, è un calcolo sbagliato per diversi motivi. Il primo è che non ci sono precedenti: Renzi era al governo dal febbraio, nel 2014: non passò all’incasso del 40 per cento ottenuto alle elezioni europee del maggio successivo. Il secondo è che alle elezioni europee la partecipazione elettorale è stata del 53 per cento, mentre a quelle politiche nazionali di solito è del 73 per cento. Quindi, non si può sapere come si distribuirà quel 20 per cento in più di elettori. Insomma, Salvini non si rende conto che non viviamo in una sola democrazia, ma in un regime di plurime democrazie (locali, regionali, nazionale, europee), e che i risultati a un livello non sono automaticamente riprodotti agli altri livelli. Tanto più per una forza politica che ha meno del 20 per cento degli aventi diritto al voto.
Democrazia vuol dire ascoltare la voce del popolo anche all’interno dei partiti, perché anch’essi sono popolo.
Lei mette così in luce, in modo sbagliato, un problema importante. Questa crisi si svolge in termini radicalmente diversi dalle crisi di una volta. Basta leggere i libri di memorie e i ricordi dei governanti del passato. Si facevano riunioni di segreterie di partiti, di comitati nazionali, talora persino di congressi. Dietro a tutto questo c’era un fitto scambio di opinioni tra persone e gruppi. Insomma, con tempi forse rallentati, le decisioni venivano raggiunte dopo accurate ponderazione delle diverse strade di uscita. Ora le decisioni sono più rapide, ma certamente frettolose.
Che strade che si aprono?
La prima domanda è: può restare al governo chi ha manifestato sfiducia nel governo? Si aggiunga il dubbio di chi pensa che in questo caso è il ministro dell’Interno, capo della macchina delle elezioni. In Grecia, quando si avvicinano le elezioni, il ministro dell’interno lascia e viene nominato un ministro provvisorio, di regola una personalità indipendente ed estranea alla politica. Tuttavia, la macchina delle elezioni, pur se assicurata dal ministero dell’interno, in Italia, è sotto il controllo del sistema giudiziario.
Più importante sapere quale soluzione governativa.
In Italia siamo maestri: vi sono governi di decantazione, di tregua, del presidente, di scopo, istituzionali, tecnici. Tutti nomi sbagliati perché un governo, nominato dal presidente e con la fiducia delle Camere, è un governo come tutti i governi. Richiamo alla sua attenzione anche un altro modello, quello proposto da Ugo La Malfa all’inizio del 1979, di un governo di scopo “doppiato” da un comitato dei partiti che lo appoggiavano (la vicenda è narrata e analizzata da un osservatore-partecipante di eccezione, Andrea Manzella, nel volume intitolato “Il tentativo La Malfa. Tra febbraio e marzo 1979, nove giorni per un governo”, Bologna, il Mulino, 1980, interessante anche per sapere quel che si dicono i rappresentanti dei partiti durante le consultazioni per la formazione di un governo, prima dell’epoca dello “streaming”).
Facciamo un salto all’indietro: quale bilancio per il governo uscente?
Il sessantacinquesimo governo della Repubblica giurò 89 giorni dopo le elezioni. Fu un parto difficile. Si fondò su un patto di governo del 18 maggio 2018, che fu presto dimenticato. E’ stato un governo duumvirale, con continui conflitti, ma anche continui accordi nella logica spartitoria, relativi al sottogoverno. In questo senso, il corporativismo ha prevalso sul populismo. Questo si vede anche nelle leggi: poche, condite di provvedimenti-slogan e di concessioni corporative a questo e a quello. Una attenzione mediatica riservata solo ai tre grandi obiettivi: sicurezza, reddito di cittadinanza, quota cento. Mai tante poche leggi, ma mai tante leggi sulla sicurezza. Il governo ha avuto continui e improduttivi conflitti con l’Unione europea. Si è nutrito di slogan del tipo “si faccia eleggere” ogni volta che vi era una voce dissonante. Ciò che dimostra il predominio dell’assolutismo democratico (la maggioranza prende tutto, il dissenso non è riconosciuto). Impressionante segno tangibile di questa deriva assolutistica – decisionista è stata la durata dei consigli dei ministri, oscillante intorno all’ora, se paragonata ai consigli dei ministri di altre epoche difficili, come il 1962-1966, su cui abbiamo la testimonianza di Pietro Nenni, che in una quindicina di casi indica la durata dei Consigli dei ministri di allora: essa oscillava tra le 4 e le 10 ore ; in un caso la seduta del Consiglio si protrasse per tre giorni (P. Nenni, op. cit., p. 334, 357, 383, 444, 461-2, 487, 499, 516, 570, 623, 637, 695, 708). Insomma, una volta si dava importanza alla collegialità, al dibattito interno, alla ricerca del compromesso; e c’erano persone che volevano cooperare (Nenni, De Martino, Moro) e che cercavano all’interno dei rispettivi partiti e nei rapporti tra i partiti i modi per giungere ad accordi.