Conoscere Matteo Salvini, per contrastarlo
Un ex buono frustrato e quindi banalmente incattivito. Più guitto che attore. Più calcolatore che leone. Chi è davvero il leader della Lega? E perché deve far paura a chi ama la società aperta? I tweet e le folle, l’insulto e il richiamo agli italiani. Un ritratto
Simpatico o simpatica è aggettivo tremendamente scivoloso, non descrive veramente, ammicca e poi tradisce. Lo usiamo quindi, appropriatamente e anche sinceramente, per Matteo Salvini. Non ci crederete, ma da vicino, a telecamere spente e cellulari in tasca, è, appunto, simpatico. E anche capace di una forma non posata, non paternalistica, di contatto diretto con chiunque incontri. Saluta tutti senza far scene, stringe mani anche se si imbatte in qualcuno sconosciuto in un corridoio e anche se non è in favore di riprese. E in quelle occasioni non fa domande da protettore degli italiani oppressi, è davvero empatico ma non piagnucoloso. Deve avere da qualche parte degli accenni di bontà, qualcosa di non proprio espresso. Non è certo un buonista, lo si dice per evitare sue querele. Si direbbe invece che sia un ex buono, frustrato e quindi banalmente incattivito. Ma quando dice, in pubblico, le sue cosacce si sente un groppo di dolore o di imbarazzo o di rimorso nella sua voce.
E’ un cattivista perché sottopone a impulsi studiati la manifestazione delle sue emozioni, tanto da renderle un po’ stonate
E’ un cattivista, perché gli ismi sono elaborazioni intellettuali, costruzioni ideologiche, schermi utili per l’operatività pubblica. E’ un cattivista perché sottopone a impulsi volontari e studiati la manifestazione delle sue emozioni, tanto da renderle un po’ stonate, perché è difficile cavalcare gli ismi senza essere scoperti, ci vuole stoffa da attore, grande recitazione e quindi grande naturalezza, mentre lui, anche quando sale baldanzoso sul palco di qualche piazza, sembra sempre un po’ timido, in cerca di qualche approvazione. Facile alla commozione, più guitto che attore, fino a caderci nel più scontato dei modi, parlando dei figli in pubblico, dopo la storiaccia indifendibile del famigerato giretto in moto d’acqua e soprattutto della successiva tentata repressione dei diritti di un giornalista, peraltro colpito lui sì con un tentativo di esposizione al pubblico ludibrio o quantomeno all’odio dei tanti salviniani nervosi in circolazione, fino alla battuta rivolta successivamente al giovane giornalista e di cui il ministro dovrà vergognarsi per lungo tempo o pentirsi, recitando poi un buon numero di rosari, sui “bambini che gli piace tanto filmare”.
Però, e non valga come esimente, anzi se leggete bene è un’aggravante, nessuno sinceramente cattivo direbbe “zingaraccia”, insulto dal suono perfino infantile, termine sì certo offensivo e con un palese sfondo razzistico, ma che sembra costruito con una dose di azzardo temperato da riflessione, e non solo per evitare di incorrere in sospensioni dell’account social. Zingaraccia è un’offesa calibrata, un test, un tentativo di saggiare l’ascolto e vedere se il risultato arriva. E’ l’abitudine al cattivismo, il lavoro su sé stesso per riuscire a essere davvero nel ruolo, a creare le sue offese, le cose orrende che dice e quell’abitudine e quel lavoro, strettamente legati all’attività di continuo monitoraggio social dei suo gruppo di consulenti strategici, ci portano ai passaggi successivi, a cominciare dal disprezzo per le acquisizioni del saper vivere, della convivenza regolata, delle buone maniere e delle forme e della sostanza dei sistemi politici democratici e liberali.
Passaggio successivo: il disprezzo delle buone maniere e delle forme e della sostanza dei sistemi politici democratici e liberali
Ha cominciato così la sua ascesa verso il consenso. Lui faceva il rompi-regole, il monello, l’opportunista, mentre tutti, nel 2011, si acconciavano a una soluzione umile e decorosa per venir fuori dalla peggiore crisi di credibilità della politica e delle istituzioni, quella di una maggioranza, in cui la Lega era pure presente, perfettamente stabile numericamente ma costretta a lasciare il governo da essa espresso dal crollo della credibilità finanziaria del paese. Un trauma per la rappresentatività democratica che la comunità sociale e politica italiana non ha neanche lontanamente elaborato, anzi non lo ha ancora neppure narrato terapeuticamente, preferendo la fuga verso racconti di comodo, tra complotti e fantasie su operazioni decise oltreconfine e vittimismi e aggressioni ai danni del nostro patrimonio industriale inventate sul momento e poi esaltate nella versione sovranista (completamente riscritta e inventata ex post) dei fatti di quei mesi. Qualcosa di simile è stato già scritto ma vale la pena di tornare sulla tesi: Salvini incarna (con l’aggiunta di tutti gli orpelli cattivisti, dai quali come si diceva promana una sensazione, aggravante e non scusante, di posticcio, di recitato) la rimozione nazionale di quel trauma. Gli italiani avevano votato un governo di centrodestra nel 2008 e lo avevano fatto più convintamente che nelle due precedenti vittorie del fronte guidato da Silvio Berlusconi, perché nel 2008 non si trattava più di un tentativo, come nel 1994, o di una rivincita, come nel 2001.
Era una scelta consapevole e politicamente fondata. Poi tutto è saltato e non ne è stata data una spiegazione comprensibile, almeno nei termini in cui una spiegazione avrebbe permesso agli elettori di razionalizzare la vicenda nata prima con il loro voto per il centrodestra e poi con le dimissioni (senza una mozione di sfiducia) di un governo eletto e sostenuto da un’ampia maggioranza.
E se Berlusconi accettava la prospettiva del governo di Mario Monti, votandogli la fiducia, per proporre solo molto tempo dopo la tesi dei ripetuti golpe ai suoi danni decisi all’estero o nei palazzi italiani, Salvini sceglieva la strada della rimozione immediata della questione, con una strategia che lo avrebbe portato a guidare la Lega e poi l’intero fronte sovranista, ma la parola ancora non si era affermata, e quindi a trasformare l’intero centrodestra in una componente di quel fronte. E’ stato definito per questo un campione dell’irresponsabilità, ma c’è un di più che ha a che fare con qualche forma di psicologia di massa: Salvini era stato immediatamente, e appunto in modo del tutto irresponsabile, il tetragono negatore della situazione reale in cui si trovava l’Italia. E questa non è stata solo una scelta di opportunismo per schivare il peso di una responsabilità politica, ma in più, e cosa ben più importante per la psicologia degli elettori, con quel comportamento e con quella opposizione pressoché solitaria ha dato da subito una specie di assoluzione all’ingrosso per la cattiva coscienza nazionale. Era già successo, con la guerra anticasta (per attribuire a qualcuno le colpe dell’inefficienza politica), con le iperboli sugli sprechi e i costi della politica (per additare colpevoli cui attribuire la responsabilità del debito pubblico, dimenticando i grandi capitoli di spesa, come previdenza, sussidi e sanità), e succederà dopo con la colpevolizzazione dei migranti: la cattiva coscienza nazionale si dava una ripulita, sebbene molto superficiale, attraverso quegli strumenti. Salvini ne era l’incarnazione, tanto forte da reggere, successivamente, a vicende tipicamente anticasta, come la condanna e il successivo accordo a carico del suo partito, per l’uso scorretto di milioni e milioni provenienti da rimborsi elettorali. Anche la campagna anticasta era qualcosa di strumentale, una moda. Fatto il suo corso ha lasciato in pace la Lega, con le sue rate quasi secolari per rimborsare lo stato. L’incarnazione del tentativo autoassolutorio degli italiani non veniva scalfita da fatti contingenti.
La trucezza è servita a lavarci dei nostri errori collettivi, ora però se ne vada
e si porti via quei ricordi. Non sta succedendo se non per minimi accenni,
ma qualcosa sottotraccia comincia ad avvertirsi in una certa stanchezza nella comunicazione,
nella ripetitività delle formule, nel cattivo gusto ostentato
Attenzione però, e qui si cominciano a vedere i segnali dei contraccolpi della strategia salviniana: della cattiva coscienza gli elettori italiani si vogliono sì liberare ma ne provano anche vergogna. E il Salvini che ha incarnato quello spiazzamento delle responsabilità, che ha permesso di trovare una via d’uscita, pure con la sbruffonaggine del “prima gli italiani” dal senso di superiorità che emanava da un Mario Monti, ora potrebbe diventare un personaggio con cui non ci si vuol più far vedere in giro, uno che ha a che fare con un nostro passato di cui ci vergogniamo. La trucezza è servita a lavarci dei nostri errori collettivi, ora però se ne vada e si porti via quei ricordi. Non sta succedendo se non per minimi accenni, i segnali visibili sono quelli noti, ma qualcosa sottotraccia comincia ad avvertirsi in una certa stanchezza nella comunicazione, nella ripetitività delle formule, nel cattivo gusto ostentato (che alla fine scoccia anche i bagnanti del Papeete).
Il cattivismo salviniano si esprime in pubblico, in varie forme. Lo conosciamo e individuiamo nelle classiche manifestazioni di piazza, raramente in Parlamento, più spesso nelle camminate tra microfoni o in conferenze stampa con un minimo di organizzazione, molto frequentemente nelle dirette o nelle registrazioni affidate a Facebook o nel breve spazio dei suoi tweet e in caduta a tutti gli altri social. Nei diversi casi sono diverse le modalità espressive. In piazza è terribilmente sciatto nell’esposizione di programmi politici. Niente più, per la parte economica, di un liberalismo da terza elementare, fatto sostanzialmente della denuncia degli eccessi burocratici ai danni di chi vuole intraprendere (la scoperta dell’America), della promessa, mai realizzata, di abbassare le tasse, di un certo piglio nel garantire che gli investimenti in opere pubbliche e infrastrutture verranno realizzati. A questo poverissimo apparato liberale affianca poi una altrettanto basica strumentazione nelle politiche sociali, compendiate nella convinzione che l’età pensionabile sia una variabile indipendente rispetto all’equilibrio del sistema previdenziale, all’equità, alla sostenibilità. E nell’ammiccamento alle follie anti euro, nella chiave estrema, quella che indica la possibilità di una specie di bengodi realizzato creando moneta, una scuola, per modo di dire, che diffonde le sue scempiaggini su internet e alla quale Salvini, difensore strenuo di consiglieri economici come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, quelli che fantasticano cambi di valuta come noi programmiamo un fine settimana in montagna, ha sempre mantenuto il suo sostegno. E’ affascinato, evidentemente, dalle soluzioni regalate, miracolose, che non comportano lavoro né fatica. E’ un Pinocchio che cerca il gatto e la volpe. Le pensioni sono in equilibrio a prescindere, e distribuire moneta finta è come distribuire ricchezza vera. Aveva fatto di Elsa Fornero un idolo negativo, fin dai giorni del governo Monti per la verità, ma ora anche quella fonte di insulti e di caratterizzazione per il salvinismo d’attacco si sta esaurendo, non fa partire più l’applauso, se non quello dei fedelissimi, non fa nascere proposte alternative, dopo che tutto si è impantanato nella prosaica quota 100, per di più concessa su durata limitata.
Piazze e conferenze stampa hanno segnato il crollo della sua capacità di tenere la scena nei giorni più difficili di agosto, quando stava per lanciare l’offensiva per far saltare la maggioranza gialloverde e quando si è trovato, per le necessità di creare un caso politico, a dover perfino alzare l’intensità della sua volgarità, superando livelli già da record storico. Non solo quindi i classici sui porti chiusi e sul qui non si sbarca, accompagnato da insulti all’Europa. Non bastava quello, allora ha ripescato la mussoliniana invocazione dei pieni poteri, rivolgendosi direttamente al popolo con cui crede di avere un rapporto diretto e di cui crede di conoscere le esigenze profonde, e si è dedicato a insultare direttamente giornalisti indicandoli personalmente con chiarezza inequivocabile, nella fatale serie di incontri con i malcapitati inviati dedicati alle sue vacanze politiche, ospitati al Papeete Beach. Fino a farsi prendere talmente la mano da sparare una mozione di sfiducia nientemeno che al presidente del Consiglio, e poi, gradualmente, depotenziarla lui stesso mentre in Italia si tagliavano cocomeri per Ferragosto. Una mozione trattata come una moneta alternativa, di quelle che si stampano a volontà e secondo lui e i suoi consiglieri creano ricchezza, un modo per mandare Conte in pensione anticipata ma creando posti di lavoro.
In piazza è terribilmente sciatto nell’esposizione di programmi politici.
Niente più, per la parte economica, di un liberalismo da terza elementare.
Ammicca alle follie anti euro. E’ affascinato dalle soluzioni regalate, miracolose.
E’ un Pinocchio che cerca il gatto e la volpe
E’ il mondo magico e tragico dei minibot che ha creato la minimozione per la minisfiducia. Sono fatti noti e ampiamente raccontati. E’ la reazione di Salvini all’emozione sollevata da questi suoi attacchi inusitati e dalle evocazioni di concetti completamente estranei alle regole costituzionali e democratiche a colpire e a lasciare un segno politico. Non ha dato il minimo segno non si dica di resipiscenza ma proprio di comprensione, anche minima, anche parziale o strumentale, della gravità di ciò che aveva detto (d’altra parte era una minimozione no?). Il piglio e le frasi mussoliniane, senza che se ne faccia un parallelo storico fuori luogo, erano evidenti e voluti. E lui ci si crogiolava, anziché cominciare a chiedersi se avesse esagerato. Suscitando forse ammirazione, ma in una quota minoritaria degli elettori, certamente paura e senso di distanza anche tra alcuni dei suoi seguaci oltre ai suoi temporanei alleati a 5 stelle, esponenti dell’altra metà del populismo ma non intenzionati a essere ancora di più pappati e digeriti dall’alleato dell’accordo di governo.
Un vicolo cieco, l’urlo e l’insulto non producevano più abbastanza, e restava solo il malumore degli alleati di maggioranza, uno schema simile a quello dello scivolone tattico politico con cui si è incartato con la sfiducia sospesa al presidente del Consiglio, e superando le barriere del ridicolo mentre pronunciava propositi ministeriali o perfino dava indicazioni politiche allo stesso Conte mentre pendeva la mozione di sfiducia contro di lui. L’insulto è la sua cifra operativa, e si trasforma in modo di operare politicamente. La mozione di sfiducia è un insulto messo in prosa, ma come nei vaffa stradali a offesa si risponde con offesa o con altri comportamenti concludenti. E per il bullo non c’è il piano alternativo, la sua strategia non ha vie di sbocco. Sia nella solitudine delle registrazioni per Facebook sia nella solitudine affollata delle sue esibizioni di piazza si percepisce un pensiero che gira a vuoto. Ben evidente quando comincia l’autoipnosi, l’autoincantamento, con la serie di diminutivi e accrescitivi bambineschi con cui tenta di articolare una specie di ragionamento. Quindi quando comincia a imbambolarsi con “barchini e barconi”, anziché argomentare, e mai nessuno che in piazza, da vero situazionista o con piglio degno del Petrolini antifascista silenzioso che insignito di onorificenza fascista rispose “me ne fregio”, gli gridi e che facciamo con barcuzze e barchette, barcotte e barcoccione? Gli sono rimasti gli italiani, non quelli veri ma quelli di fantasia che nutrono la sua ossessiva lotta alla complessità.
“Prima gli italiani”. Il nazionalismo è l’ultimo rifugio di chi, come Salvini, non sa che dire.
Un vuoto di idee non emerso con chiarezza a causa dei contatti surreali con la mediazione giornalistica: non ha mai ricevuto domande specifiche
e quando le riceveva riteneva suo diritto rispondere su ciò che gli pareva
Dopo l’insulto diretto e il gioco su diminutivi e accrescitivi, entrambi ripresi mimicamente dai suoi cantori giornalistici, il richiamo agli italiani è la terza è ultima modalità espressiva e di elaborazione del discorso pubblico salviniano. Che quindi conosce tre grandi categorizzazioni. Quella dei nemici e della negatività, cui viene riservato l’insulto, quella della complessità, da combattere con tentativi infantili di ridicolizzazione (barchini e barconi, o le calunnie contro le Ong), e quella della positività generica (gli italiani). “Prima gli italiani” è lo slogan vuoto e aggressivo allo stesso tempo con cui ha tentato di dare concretezza alla sua strategia fatta di rimozione dei problemi reali. Prima per fare cosa? E soprattutto prima di chi? Ma prego prima lei, risponderebbe nuovamente l’evocato emulo di Petrolini, oppure la butterebbe su un sessista ma in questo caso ironico “prima le donne” o a un drammatizzante “prima le donne e i bambini”. Oppure potrebbe buttare male, con gli italiani spediti, prima di altri, a fare cose sgradevoli o cui si ottempera non proprio volentieri. “Prima gli italiani pagano le tasse e poi vediamo se tagliarle”, ad esempio. Oppure, chi è che in Europa deve cominciare a rispettare le regole fiscali? “Prima gli italiani”. Il nazionalismo, lo si è detto già da tempo, è l’ultimo rifugio delle canaglie, ma sostanzialmente, ancora peggio, è l’ultimo rifugio di chi non sa che dire. E Salvini, lo stiamo scrivendo da un po’, fondamentalmente non sa che dire. Non è emerso, questo vuoto di idee, con sufficiente chiarezza perché l’ultimo anno, e per Salvini è stata una droga di quelle che alla lunga fanno proprio male, lo ha vissuto tra contatti surreali con la mediazione giornalistica, in cui non ha mai ricevuto domande specifiche su nulla e quando le riceveva riteneva suo diritto rispondere su ciò che gli pareva. Più spesso si adeguavano gli intervistatori, anche un po’ irretiti da quella inaspettata simpatia di cui si parlava nelle prime righe. Catturati dall’affabilità e un po’ invaghiti dal “non si sa mai” del retropensiero giornalistico di fronte al potente, con mani in pasta nelle nomine della Tv.
Salvini in questo anno di droga pesante giornalistica, che arrivava dopo gli anni di opposizione, in cui è stato comunque coccolato grazie al ruolo facilitato dalla mancanza di responsabilità, ha perso completamente la mano. Non se ne accorge neanche più, ma la sua tecnica è diventata schematica: o svia rispetto all’argomento oppure rispetto alle persone coinvolte. Se gli si chiede qualcosa su decisioni economiche da prendere la butta sul bene dei soliti italiani, senza specificare. E se viene chiamato in causa per qualcosa subito coinvolge qualcun altro, in un gioco di specchi poverissimo ma efficace in mancanza di contrasti. Con la meravigliosamente surreale invocazione alla “compattezza” del governo che ha sfiduciato in un tweet di giovedì ha messo in luce, sinteticamente, tutte queste sue misere tecniche comunicative. Ha sviato, perché sollevando la questione dei migranti, per la quale non c’era una specifica ragione di allarme nuova, ha spostato l’attenzione sul tema a lui gradito. Ha sviato nuovamente perché ha attribuito a un imprecisato “qualcuno” una mai espressa “nostalgia per sbarchi a centinaia di migliaia”. Tutta roba inventata, secondo la tecnica di attribuire a nemici immaginari volontà contro cui poi combattere.
E’ evidente l’attività del suo staff alla ricerca quotidiana di qualche post o di qualche tweet scritti da oscuri esponenti di partiti di opposizione o da personaggi magari non in pieno equilibrio psicologico ma dotati di un qualche ruolo pubblico. Prevalentemente cercano frasi contro le istituzioni a tutela dell’ordine pubblico, e costruiscono su di esse la reazione salviniana. Sempre impostata partendo da un “amici, guardate cosa scrivono questi radical chic” e poi creando la reazione finto calma del leone ferito. Ecco gliene diamo subito un’altra occasione, perché questo è un tratto tipicamente dittatoriale.
In pochi giorni, dalla presentazione della mozione di sfiducia di cui poi lo stesso presentatore
in chief non sa più bene che fare, fino alla cancellazione di quel mostriciattolo di decreto,
che pure incarnava anni di propositi politici belligeranti,
Salvini ha perso il tocco vincente e la faccia
Il vittimismo politico, con indicazioni su piani e progetti altrui per danneggiare la propria parte politica e il paese, è uno degli elementi che accomunano tutti i personaggi che hanno fatto strame della democrazia e dello stato di diritto in giro per il mondo e per la storia. Ai democristiani o a Bettino Craxi ne hanno dette e scritte di tutti i colori, ma mai avreste trovato repliche vittimistiche e violente allo stesso tempo come quelle salviniane. Davvero mai, ma solo la composta e anche forte, polemica, rivendicazione del proprio ruolo. Ma quel tweet è meraviglioso in sé anche esclusivamente per la richiesta di “compattezza”, neanche di collaborazione ma proprio del termine più eccessivo, rivolta a ministri che sta licenziando. Oppure non li stava licenziando davvero e allora la spregiudicatezza nell’uso degli strumenti democratici, come una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio, finisce per essere tale da dimostrare che in quegli strumenti non ci crede neppure un po’ e che quasi si diverte a svilirli, a svuotarli, a irriderli. Con più convinzione e più struttura del Luigi Di Maio che prima promette l’impeachment e 24 ore dopo sale al Quirinale a giurare. Sì qualcosa di simile c’è, ma in Salvini si accompagna ad altro, a una maggiore spregiudicatezza e a un più profondo (forse più antiquato rispetto a quello dei grillini) disprezzo per le istituzioni.
Per smontare la pseudo strategia di Salvini su sicurezza e migranti, temi che lui stesso e non la cronaca tende a tenere sempre assieme, è bastato un piccolo e semplice ricorso al Tar. Almeno Matteo Renzi aveva tentato di riscrivere le regole istituzionali, e alla fine ha perso, per la sua riforma costituzionale, di fronte a un’ampia coalizione occasionale o accozzaglia e in un drammatico referendum, in cui gli elettori hanno comunque manifestato un sostegno minoritario ma non trascurabile alle proposte di cambiamento. E c’erano, a dar manforte all’ampia coalizione occasionale (nella quale però spiccavano due partiti che poi hanno davvero governato insieme) i più eminenti costituzionalisti, giornalmente ospitati da eminentissimi programmi giornalistici. Per far saltare invece il progetto identitario salviniano, il suo marchio politico, il suo Rubicone, è bastato un semplice Tar in prima istanza, chiamato in causa da un ricorso scritto dall’avvocato di una Ong. E’ tutto crollato in pochi giorni e con pochissima carta bollata, perché quel decreto, con gli addentellati delle multe a chi soccorre e della velata persecuzione preventiva contro chi manifesta in piazza, era assieme un record di sciatteria e di aberrazione. In pochi giorni davvero, dalla presentazione della mozione di sfiducia di cui poi lo stesso presentatore in chief non sa più bene che fare, fino alla cancellazione di quel mostriciattolo di decreto, che pure incarnava anni di propositi politici belligeranti, per giurisdizione amministrativa locale, Salvini ha perso il tocco vincente e la faccia, anche la faccia da Papeete.
Il ridicolo fa parte della vita, va accettato. Come avviene, da parte dei più saggi, con un po’ di paziente sopportazione. Può capitare, succede a tutti. Chi lo combatte invece rischia. Le strategie, entrambe perdenti, per combattere il ridicolo possono essere offensive o difensive. Salvini evidentemente ha un grande timore del ridicolo e ha scelto la strada più difficile per contrastarlo non avendo la forza e l’equilibrio per accettarne quella parte che tocca a tutti e che è anche qualcosa di piacevolmente umano. Lui prova a negarne l’esistenza. A comportarsi in modo ridicolo senza dare a vedere che lui stesso sa benissimo di trovarsi in quella condizione. Sì, ho la felpa di questo o quel corpo e parlo di ruspe e dico che bisogna fermare barconi e barchini, ma intanto le cose vanno avanti a modo loro senza essere minimamente scalfite dalle mie felpe, dalle mie ruspe, dai miei diminutivi e dai miei accrescitivi. Anzi, intanto, i problemi si incattiviscono e io sono sempre più isolato, nessuno vuole avere a che fare con me in Europa, mi resta solo un interessatissimo amico al Cremlino. Sì sono ridicolo, ma non vi do questa soddisfazione, radical chic che non siete altro, e vado avanti così, amici, sempre più arrabbiato, perché sento le risatine, e sempre più commosso e con la voce ingolfata, perché ce l’avete con me e siete cattivi e vi state prendendo gioco del consigliere comunale rabbioso ma buono che ero (quello del Vesuvio lavali col fuoco e della Padania che non è Italia) e del giornalista non proprio brillante di Radio Padania che ero, costretto a sentirsi sproloqui su sproloqui nei fili diretti e a dover pure dare ragione. E non se ne viene fuori con le fidanzate aspirazionali, come la sanguigna e bella e alta conduttrice tv o la rampolla di ottima famiglia, bella in modo più elegante della precedente.
E va avanti così a difendersi anche quando ha più timore. Il suo amico e compagno di marginalità culturale, Gianluca Savoini, aveva trovato forse la strada giusta per sistemare un po’ di cose di soldi e di potere con l’aiuto di un bel paesone sovranista, in grado di darci anche un modello culturale e politico per plasmare il nulla in una qualche veste storicamente vendibile, quella ricorrente, insulsa, del nazionalismo. Il dialogo all’Hotel Metropol è buono per una commedia: noi sistemiamo l’Europa così, voi ci date un po’ di soldi, poi cambiamo il mondo tutti insieme. Fantastico, anche perché preceduto da tutte quelle spedizioni di Savoini e poi dal ridicolo dell’invito, no dell’imbucata, ah no proprio dell’invito e sollecitato dal ministro dell’Interno. E poi altre impresentabilità ridicole. Come l’inventore (bum) della flat tax, prendibile sul serio solo da chi cerca uno più ridicolo di sé stesso, Armando Siri, portato sfrontatamente al tavolo con le parti sociali, allestito ineditamente al Viminale, dopo dimissioni, inchieste, bancarotta, altre inchieste, mutui sospetti, e soprattutto dopo una palese e totale inappropriatezza come esperto di cose fiscali. Vuole che gli si dica che non è una cosa che si fa. Cerca di fomentare l’appello alla correttezza, per poi scagliarcisi contro. Ma non gli hanno spiegato che la correttezza contro cui pure si può e si deve legittimamente combattere da queste parti del mondo non si è mai vista, è una cosa americana e forse inglese, molto inserita in un quadro di regole che presiedono alla convivenza e all’integrazione. E’ un vero e profondo dramma culturale, contro cui sono state scritte cose molto ben ragionate e ben argomentate, o, con la preveggenza degli scrittori, cose perfino divertenti come il Radical Chic di Tom Wolfe. Salvini invece ha altri, non Wolfe, e consuma così la sua tragedia di un uomo simpatico.