Perché il Pd non deve scendere a patti con i Cinque stelle. Nemmeno pensando a Togliatti
Non è la primavera del ’44 né la fine di Weimar. E il Pci che si astenne sul governo Andreotti nel ’76 era un altro partito. La soluzione oggi è un esecutivo tecnico, “neutrale”
Al direttore - I capi storici del “migliorismo” sono stati tutti educati alla lezione del togliattismo: realistica valutazione dei rapporti di forza nella lotta politica, un orizzonte politico entro cui collocare sempre le lotte dei lavoratori, non impegnare le proprie forze in battaglie sterili o per obiettivi irrealistici, avere a cuore gli interessi della Nazione. Questa fu la cultura politica di Togliatti che seppe genialmente realizzare il “suggerimento” datogli alla vigilia del rientro in Italia da Stalin, la notte del 4 marzo del 1944: “Il re non è peggio di Mussolini, cercate un accordo con Badoglio”. Credo che a questa lezione si riferisca Giuliano Ferrara quando, ricordando il suo togliattismo, invita il Pd a sostenere nientedimeno che un “monocolore grillozzo” pur di isolare e sconfiggere il nemico, il pericolo per la democrazia italiana, il Truce, al secolo Matteo Salvini. I maestri dello storicismo hanno insegnato che le comparazioni storiche, col trascorrere del tempo e il mutamento dei contesti, vanno utilizzate con estrema cautela per non incorrere in abbagli. In ogni caso nella primavera del 1944 c’era la guerra, l’Italia era divisa in due e gran parte del territorio nazionale era occupata dai tedeschi. Importante era porre fine a dispute paralizzanti tra gli antifascisti e assumere come prioritario l’impegno a battersi per liberare l’Italia dai fascisti e dai tedeschi. Non solo. Al governo con Badoglio, insieme a Togliatti ci sarebbero stati uomini che avevano combattuto il fascismo, erano stati in galera o in esilio. Oggi si tratta di combattere Salvini, capo di una classica destra con “inedite punte sovversive”, ed eventualmente di chiedere agli italiani di tornare a votare. Non mi nascondo le difficoltà, le asprezze, i rischi del momento, ma manteniamo il senso della misura nel valutare la crisi italiana. Non siamo alla fine di Weimar né all’ottobre del 1922. Siamo a un passaggio tormentato di una crisi difficile.
Salvini non lo si combatte invocando ammucchiate parlamentari verso cui è cresciuta la diffidenza dei cittadini
Si sostiene che, per contrastare le mire del Truce, il Pd dovrebbe allearsi con i resti di un partito verso cui si è creata una distanza non solo politica ma antropologica. Un partito che ha puntato alla distruzione sistematica della democrazia rappresentativa, che con il suo “eversivo nullismo” ha incattivito il tessuto civile dell’Italia. Come scrive Biagio de Giovanni, il partito “fondatore del nuovo sovversivismo italiano”. La mia convinzione è che una operazione del genere susciterebbe tra gli italiani un sentimento di rigetto, sarebbe considerata la mossa disperata di chi ha timore di tornare al voto. Quanto durerebbe? Che ne sarebbe del Pd? E dell’Italia alle prese con Grillo, Di Battista e Di Maio?
Salvini non lo si combatte invocando ammucchiate parlamentari verso cui è cresciuta la diffidenza dei cittadini. Né stabilendo una intesa di governo con chi ha le medesime responsabilità della Lega per il punto in cui è giunta la situazione del paese, il Movimento 5 stelle. Un partito allo sbando, già punito dagli elettori, che cerca riparo da un nuovo disastro elettorale aprendosi a un governo con il Pd, la forza definita il “Male della politica italiana” dal loro demiurgo e fondatore Beppe Grillo. Demonizzare la Lega non serve né aiuta a combatterla con maggiori possibilità di successo. Ciò che avviene deve essere compreso. Se un partito avviato verso un declino inarrestabile diventa la forza più consistente del centro destra alle elezioni politiche del marzo 2018, poi il soggetto egemone della maggioranza di governo e con il voto del 26 maggio il primo partito italiano, ci saranno delle ragioni. Ci siamo sforzati di capirle? Di capire come il capo della Lega sia riuscito ad “avere un’esclusiva totale sugli unici grandi temi che stanno a cuore agli elettori: più sicurezza, meno tasse”? Matteo Salvini ha trasformato l’identità e l’immagine della Lega conducendola oltre il “federalismo” nordista e padano: una intuizione che non va liquidata con qualche battuta sul “truce”. Le paure cui la sinistra non ha saputo dare una risposta sono state sfruttate dalla Lega come carburante per una sua straordinaria avanzata oltre le regioni del nord fin nel Mezzogiorno. La forza persuasiva delle argomentazioni contro la condotta di Salvini è apparsa debole. Non c’è stata alcuna discussione su questo nel Pd.
Un’intesa sulla base delle interviste di Franceschini e delle dichiarazioni di Bettini? Ma ci facciano il piacere!
Eviterei di evocare infine l’audacia dimostrata dal Pci nell’astenersi sul governo Andreotti nel 1976 per auspicare altrettanta audacia oggi nel sostenere i “grillozzi”. Nel 1976 il Pci era un partito di acciaio, aveva superato il 34 per cento dei voti, quasi quattro volte il Psi e poco lontano dalla Dc. Una forza sicura di sé e della propria politica. A quella intesa non si giunse in modo estemporaneo. Da anni si succedevano le lezioni a Frattocchie e gli scritti su Rinascita, le riunioni del Cc e della Direzione sulla analisi della Dc e veniva insegnato che quel partito era una grande forza con al suo interno componenti autenticamente popolari con le quali occorreva discutere e a certe condizioni collaborare. Insomma, non c’era nulla di improvvisato nel voto del Pci che consentì al governo Andreotti di durare fino alla tragedia di Moro. E fu un governo utile al paese. Oggi su che basi avverrebbe l’intesa di governo con i Cinque Stelle? Sulla base delle interviste di Franceschini e delle dichiarazioni di Bettini. Ma ci facciano il piacere!
E allora, obietterà Giuliano, come se ne esce dalla situazione che si è creata con la scelta della Lega? Con la difficile condizione economico-finanziaria del paese? Con gli impegni assunti dal governo italiano con Bruxelles nello scorso giugno per scongiurare la procedura di infrazione? Si esce con un atteggiamento responsabile e lineare. Ascoltando e tenendo conto scrupolosamente delle parole che, all’indomani della formalizzazione della crisi, pronuncerà Sergio Mattarella e dichiarando la disponibilità del Pd a sostenere la formazione di un governo sulla base di un mandato preciso e circoscritto: predisporre la manovra di bilancio per il 2020 in linea con gli impegni presi a giugno con l’Unione europea e condurre al voto il paese immediatamente dopo. Dovrebbe assolvere a questo compito un governo “neutrale” rispetto alla contesa politica, con una forte caratterizzazione tecnica. Un tale esecutivo avrebbe il voto del Pd. E, oso dire, lo sguardo favorevole del Quirinale. Non sarebbe un governo per prendere tempo ma per assolvere a un compito necessario per il paese. Questo avrebbe dovuto sostenere Matteo Renzi e non aprire varchi all’idea rovinosa di un accordo politico e di governo con i Cinque stelle. I grillini non ci stanno? Non riescono a essere per una volta responsabili verso l’Italia? Lo spieghino agli elettori. Gli italiani apprezzerebbero la serietà della condotta del Pd. Non capirebbero un intruglio quale l’accordo tra Grillo e Zingaretti.