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Cinque punti per evitare il governo barzelletta

Claudio Cerasa

Il governo rossogiallo può nascere oppure no. Ma se il Pd non vuole rottamare il suo riformismo deve porre ai grillini alcune richieste non da libro Cuore: collocazione occidentale, via Quota 100, Jobs Act, un tetto al debito pubblico

La giornata di ieri si è conclusa con una raffica di prolifiche consultazioni che hanno suggerito al presidente della Repubblica di offrire altri giorni al Partito democratico e al Movimento cinque stelle per tentare di dare forma a quel progetto di governo che le delegazioni dei due partiti ricevute ieri al Quirinale hanno disegnato per la prima volta di fronte al presidente della Repubblica.

 

Il governo giallorosso, o se volete rossogiallo per non far perdere i sensi ai già martoriati tifosi della Roma, ha ancora molti passi da fare, molti problemi da affrontare e molti veti da superare ma le consultazioni di ieri hanno consegnato agli osservatori la certezza che quello che fino a qualche mese fa sembrava impossibile oggi è diventato possibile e se per un qualche scherzo del destino ciò che oggi sembra possibile dovesse diventare nuovamente impossibile (Salvini ci spera e ieri ha addirittura proposto al M5s e alla Lega un rimpasto) vi sarebbe un’ulteriore opzione che renderebbe impossibile il ritorno alle urne così desiderato da Matteo Salvini: una maggioranza pazza, “istituzionale”, allargata non solo al M5s e al Pd ma anche a Forza Italia, che ieri ha riferito a Sergio Mattarella di essere pronta a fare quello che la Lega ha fatto un anno e mezzo fa e cioè rompere l’alleanza del centrodestra per far partire un governo modello Draghi capace di ritardare quanto più possibile la data delle elezioni (opzione oggettivamente da incubo per il M5s). Di fronte a questo scenario politico, e di fronte al tramonto di quella che sarebbe stata l’opzione naturale alternativa al voto, ovvero il governo di minoranza grillozzo suggerito per la prima volta su queste colonne dall’Elefantino, c’è una domanda che merita di essere messa sul piatto e che riguarda lo scenario funesto, ma non più funesto di un governo Borghi-Le Pen-Orbán-Bagnai, di un esecutivo a guida M5s e Pd. E la domanda cruciale è questa: in un governo del genere sarà il Pd a cambiare il M5s o sarà il M5s a cambiare il Pd?

 

All’interno del centrosinistra non mancano gli esponenti di rilievo del partito che pur di cancellare ciò che ha fatto il Pd negli anni di governo della scorsa legislatura, e pur di cancellare la stagione riformista dei democratici, non vedrebbero male una grillizzazione del partito per riportare il Pd al suo anno zero. Il Pd è ovviamente libero di suicidarsi e di sostenere un governo che non abbia altri punti all’ordine del giorno se non quello di evitare di far vincere Salvini alle elezioni (che comunque sarebbe un signor programma). Ma di fronte alla prospettiva di un governo di lunga gittata con il Movimento cinque stelle il Pd avrebbe il dovere di non prendersi in giro, e di non prendere in giro i suoi elettori, e di aggiungere ai punti inderogabili portati ieri da Sergio Mattarella – appartenenza leale all’Unione europea; pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa; sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale; cambio nella gestione di flussi migratori; svolta delle ricette economiche e sociali, in chiave redistributiva; revisione dei decreti sicurezza; no alla riforma del taglio dei parlamentari – almeno altri cinque punti inderogabili per evitare che il contatto con l’agonizzante M5s possa diventare quello che a oggi sembra: un abbraccio mortale.

 

Punto numero uno: fedeltà al Patto atlantico, con netta discontinuità rispetto alle politiche isolazioniste messe in campo dal governo precedente che hanno avvicinato l’Italia più alla Russia che all’Europa e più alla Cina che alla Nato.

 

Punto numero due: stop all’abolizione della prescrizione, stop alla revisione della legge sulle intercettazioni, stop al progetto di eliminare ogni provvedimento capace di porre un filtro tra le intercettazioni usate per indagare e le intercettazioni usate per sputtanare, stop al veto sull’allargamento del perimetro delle depenalizzazioni e riforma della giustizia finalizzata ad accorciare e non ad allungare i tempi dei processi, come fatto finora dal governo uscente.

 

Punto numero tre: assicurare, come suggeriscono oggi sul Foglio Giorgio Tonini ed Enrico Morando, che il blocco degli aumenti Iva venga finanziato con le risorse recuperate dall’abrogazione di quota cento e dalla ristrutturazione del reddito di cittadinanza, per evitare che per bloccare l’aumento dell’Iva sia necessario ricorrere o a nuovi aumenti di tasse o una violazione dei trattati europei.

 

Punto numero quattro: dare più dignità al decreto dignità agevolando le assunzioni a tempo indeterminato e rendendo i rinnovi del contratto a termine non onerosi a tal punto da creare come successo nell’anno in corso un effetto di sostituzione nei posti di lavoro.

 

Punto numero cinque: invariabilità dell’attuale livello di debito pubblico, come suggerito lo scorso anno dal nostro amico Alberto Irace che già nell’aprile del 2018 ragionò su ciò a cui il Pd non avrebbe mai potuto rinunciare in caso di contatto con il M5s, da fissare attraverso la definizione di un numero preciso da non superare, come fa il Parlamento degli Stati Uniti d’America, con un limite invalicabile che potrebbe coincidere con i 2.317 miliardi di euro raggiunti a fine 2018, per non rubare altro futuro alle nuove generazioni finanziando le politiche anti salviniste con nuova spesa pubblica.

 

Nessuno di questi punti, purtroppo per l’Italia, è comparso ieri né nelle dichiarazioni del Pd né tantomeno in quelle del M5s. Ma se il Pd non vuole trasformarsi nella sesta stella del M5s e vuole tentare di creare un governo europeista, non nemico dello stato di diritto e capace di riaccendere un po’ di fiducia nel paese, deve mettere da parte le supercazzole, detto con rispetto, e fare una scelta: fare un governo che segni la resa del grillismo o fare un governo che segni la resa del riformismo. E la scelta purtroppo per l’Italia non è affatto scontata.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.