Forni e bluff. Ecco perché solo i like possono far fallire il governo Pd-M5s
Di Maio tentato dalle proposte di Salvini (Chigi e Mef), Dibba scatena i militanti. I contatti tra Giggino e Zingaretti
Roma. Forse inconsapevole dell’inopportunità del paragone ferroviario, per commentare l’esito di una crisi innescata da una mozione parlamentare sulla Tav Federico Fornaro dice che “il treno è sui binari”. E il riferimento che fa il capogruppo di LeU alla Camera, non proprio defilato nelle trattative di questi giorni, è al nuovo governo giallorosso. Che certo sembra destinato a nascere, ma correndo su un terreno reso accidentato non solo dalle reciproche diffidenze tra Pd e M5s e dalle guerre di posizione tra le varie correnti interne, ma anche dalla furia di chi resta fuori da questo accordo e ha deciso pertanto di giocare il ruolo di diavolo tentatore. E così, nella giornata che vedrà l’incontro tra i capigruppo grillini e democratici, Matteo Salvini fa recapitare a Luigi Di Maio un messaggio di disarmo unilaterale: “Sono pronto a vederti: stamattina, oggi pomeriggio o anche stanotte”. E da lì, il rilancio: non solo la premiership offerta a Luigi Di Maio in caso di riappacificazione gialloverde, ma pure il ministero dell’Economia. Condizioni così generose che perfino dei senatori leghisti si ritrovano a chiedere spiegazioni al loro ministro Gian Marco Centinaio, sentendosi rispondere che “quello che farà Matteo, alla fine, nessuno lo sa, ma noi ora offriamo il più possibile a loro”, cioè ai grillini, “cosicché loro chiedano il più possibile al Pd”. E nello spericolato gioco al rialzo, il treno del governo può così deragliare.
E guarda caso passano pochi minuti e Alessandro Di Battista, che è sempre il più sveglio di tutti, cade nella trappola e dà nuovo credito alla teoria dei due forni: “tutti ci cercano”, e noi allora “alziamo enormemente la posta sulle nostre idee”, sentenzia su Facebook lo stratega del Guatemala. Ed è un post che subito mette in fermento la base e le pattuglie parlamentari, che si scambiano sulle loro chat messaggi allarmati per i tanti commenti negativi da parte di militanti veri o presunti. E sembrerà folle, ma per un movimento nato nella vaneggiante venerazione del web, i “sentiment” sui social valgono almeno quanto le ragioni vere della politica, ed è così che le trattative col Pd, che pure sono avviate, vengono schiacciate dal peso dei like, e il M5s finisce per restare prigioniero della sua stessa propaganda, quella che per anni ha descritto il Pd come il “partito del cemento”, dell’“ebetino di Firenze” e, per ultimo “di Bibbiano”. E di nuovo Salvini – il quale trema non poco, all’idea di lasciare il Viminale – fiuta l’aria, e sfrutta Di Battista (“Il nostro migliore alleato”, scherza coi suoi fedelissimi). E così l’ufficio stampa della Lega inoltra, qualche ora dopo, un’agenzia ai propri parlamentari per segnalare appunto che il post di Dibba è diventato “lo sfogatoio dei militanti del M5s contrari all’accordo col Pd”.
E allora ecco che prende consistenza la “strategia del caos” predicata da Giancarlo Giorgetti: “Salvini non ha in realtà alcuna intenzione di tornare col M5s, ma vuole solo dirottare il treno”, sintetizza Fornaro. E sembra saperlo Matteo Renzi, che nel pomeriggio pur esultando dopo l’incontro delle delegazioni di Pd e M5s (“Per me è andata”), continua a citare Vujadin Boškov coi suoi interlocutori: “Partita finisce quando arbitro fischia”, anche perché a suo giudizio “Paolo Gentiloni ci ha provato davvero a far saltare tutto, e ci proverà fino all’ultimo”. Fino, cioè, a martedì prossimo, quando si tornerà al Quirinale per il secondo, e decisivo, giro di consultazioni. E lì il rischio – almeno questa è la preoccupazione dei massimi vertici del Pd – non è tanto quello di far abortire l’accordo, ma di arrivarci con un “governo purchessia”, senza un programma condiviso e senza una reale prospettiva, che troverebbe la sua identità solo “strada facendo”.
Per evitare questo scenario bisognerebbe lavorare sodo, visto che il sentiero è stretto e il tempo pochissimo: e invece l’incontro tra le due delegazioni di Pd e M5s è servito solo a fare il punto della situazione, a certificare che, sì, “non ci sono ostacoli insormontabili”, ma anche a ribadire che, per i grillini, il taglio dei parlamentari va fatto subito e senza quei contestuali correttivi costituzionali invocati nel Pd, tra gli altri, anche dal giurista Stefano Ceccanti. “E’ stato un incontro costruttivo col quale noi – spiega in serata Francesco Silvestri, vice capogruppo del M5s alla Camera e presente pure lui al vertice – abbiamo preparato il campo per l’incontro di Di Maio e Zingaretti”. Che si vedono in serata, ma che continuano a diffidare ancora l’uno dell’altro. “Forse Di Maio sta davvero valutando – è la tesi dei vertici del Nazareno – di tornare con la Lega, perché vuole fare il premier”. Un timore rafforzato da una nota che gli strateghi della comunicazione grillina, quasi ripagando con la stessa moneta gli spin del Nazareno del giorno prima, fanno filtrare poco prima del faccia a faccia, per dire che Di Maio non accetta compromessi né sul premier né sui “10 punti del programma”, anche perché il Pd non è “nelle condizioni di dettare condizioni”. Pretese un po’ fanfaronesche, di chi deve mostrare i muscoli col proprio elettorato recalcitrante per provare a convincerlo della bontà di un accordo visto come un tradimento. Certo, oltre alle esigenze della propaganda, ci sarebbero anche quelle dell’esecutivo da fare: nomi e temi che al momento sono solo vagheggiati, nell’attesa di martedì. Quando è probabile che comunque, più o meno strampalato, un governo ci sarà. Un “governo purchessia”.