Tra Renzi e Zingaretti ne resterà solo uno
Il segretario contro l'ex premier, e viceversa. La guerra di scacchi all’ultimo sangue per prendersi il Pd. All’ombra della crisi
Roma. Si osservano, si spiano, non fidandosi, e allora ognuno suggerisce ai giornalisti come interpretare le mosse dell’altro, che è sempre un modo per coprire le proprie. Dunque Nicola Zingaretti parla senza difficoltà alcuna della scissione vera o presunta che Matteo Renzi avrebbe in animo da qui a qualche mese, una volta partito, chissà, questo governo con i grillini, cioè la mostruosità – in senso latino: monstrum, “cosa che oltrepassa i limiti della normalità”. Mentre Renzi, che è il padrone dei gruppi parlamentari, lascia intendere che Zingaretti voglia sabotare ogni cosa, “perché gli preme assumere lui il controllo dei gruppi dopo le elezioni”. Quindi ne osserva i più millimetrici spostamenti, soppesa le virgole dell’altro, e con una rapidità sorprendente – zac! – appena qualcosa non gli torna, ecco che scatena la denuncia pubblica: “Se qualcuno nel Pd pensa di far saltare il banco di un possibile governo se ne assumerà la responsabilità di fronte al paese”, diceva ieri Anna Ascani, pretoriana e megafono del renzismo contundente. Perché il segretario del partito, ieri, di fronte al presidente Mattarella, aveva in effetti prospettato tre punti “irrinunciabili”, tre punti capestro per il M5s, che secondo i renziani renderebbero più complicato l’accordo. Un’accusa che gli amici di Zingaretti, per esempio i vicesegretari a lui più vicini e il capogruppo Graziano Delrio, smentiscono. E infatti a tutti nel Pd, non solo a Renzi, ma anche agli altri sostenitori del governo con Luigi Di Maio, insomma a tutto il gruppone che è al momento maggioritario – viene detto che “Nicola alza la posta soltanto per tattica. Per trattare meglio”. Chissà. Questa è infatti la versione di Zingaretti su Zingaretti, è la storia che viene raccontata per esempio a Dario Franceschini, mentre, come si diceva, per capire cosa succede davvero bisogna forse che sia Renzi a spiegare cosa fa Zingaretti, e che dunque sia Zingaretti a spiegare cosa fa Renzi, in questo duello in cui ciascuno dei contendenti ha la netta sensazione di giocarsi l’ultima partita, forse quella della vita.
Così, ascoltando i fiorentini, si capisce che Zingaretti, segretario eletto da poco, già privo di leve sui gruppi parlamentari che rispondono al suo avversario, è adesso vittima di una specie di commissariamento anche nel partito di cui sulla carta detiene la maggioranza. E’ solo, Zingaretti. Avvolto dalla mossa spiazzante di Renzi, ma anche da chi lo aveva sostenuto per la segreteria, con il complemento delle “riserve della Repubblica”, i numi tutelari del centrosinistra: Romano Prodi, Walter Veltroni, e persino Massimo D’Alema. E’ solo, il segretario. E non sa come uscire da una trappola, questa del governo, che annullerebbe la sua leadership affidando il resto della legislatura (compreso il suo personale destino) nelle mani di Renzi. Così, adesso, insieme a Paolo Gentiloni, con una discrezione antica (nulla filtra e nulla si capisce davvero), Zingaretti soppesa rischi e ipotesi di una situazione per lui estremamente complicata: il governo non lo vuole fare, ma non può dirlo senza rompere persino con i suoi sostenitori. Uno gnommero, un garbuglio reso ancora più pericoloso dal fatto che Renzi, già nel suo denso discorso al Senato, aveva fatto un accenno tutt’altro che neutrale all’idea che sabotare un nuovo governo sarebbe intelligenza con Matteo Salvini. Un’accusa tremenda, per Zingaretti, come per Gentiloni, un’arma fine di mondo e un sospetto insidioso al quale ogni tanto i due pare oppongano un’obiezione sorniona: chi è quello che ha da sempre i migliori rapporti con Salvini? E’ Renzi, ovviamente.
E allora la politica, la contingenza, l’interesse personale e l’ambizione, rendono adesso Renzi e Zingaretti i duellanti all’ultimo sangue del Pd, impegnati in uno scontro micidiale ma nell’ombra, un combattimento sordo che già li ha costretti a un’inversione di ruoli, a uno stordente gioco prospettico. Il teorico di un accordo tra la sinistra e i Cinque stelle è sempre stato infatti Zingaretti, l’interprete del modello Lazio, lì dove grillini e Pd vanno a braccetto. Mentre Renzi aveva coniato l’hashtag #senzadime, spingendosi a denunciare sempre con decisione ogni deriva filo grillina del suo partito. Adesso l’uno ha indossato i panni dell’altro, e ciascuno imbracciando le ragioni dell’altro ha dato il via a un conflitto che stenta a emergere tra laceranti abissi di ambiguità e mosse di scacchi.