foto LaPresse

Il governo si sblocca e il Pd chiede a Conte una mano per commissariare il M5s

Valerio Valentini

Le trattative proseguono, si lavora già alla squadra (due vicepremier o zero?) e il Pd cerca discontinuità depotenziando Di Maio. L’assist di Trump a “Giuseppi”

Roma. Il tweet della verità – con la benedizione di Donald Trump a un Giuseppe Conte che, chiuso nel suo ufficio, dissimula perfino impassibilità coi suoi collaboratori – arriva a sancire l’inutilità dei residui sospetti sugli esiti della crisi nel mentre che un piano più su, a Palazzo Chigi, quell’investitura così altisonante lascia stordito Luigi Di Maio, indaffarato a discutere coi suoi capigruppo dei temi da portare al tavolo dell’accordo col Pd. E d’incanto il capo politico del M5s si sente esautorato del suo presunto ruolo di conduttore di una trattativa che vede sfuggirgli dalle mani. Non a caso pochi istanti prima, in Transatlantico, Roberto Morassut, uno dei fedelissimi di Nicola Zingaretti, allo stallo delle contrattazioni per la nascita del nuovo governo dava una spiegazione molto puntuale. “Il nodo è il ruolo di Di Maio, che reclama per sé un ministero di prim’ordine e la riconferma come vicepremier. Il che è significativo della paura Di Maio, che teme si certifichi quello che ormai è chiaro a tutti: e cioè che il nuovo leader del nuovo M5s sia Conte, cioè il cavallo su cui hanno puntato sia Grillo sia Casaleggio”. E certo col passare delle ore, mentre il polverone di un dibattito un po’ sguaiato inizia a depositarsi, diventa chiaro come a fare affidamento sull’“avvocato del popolo” scopertosi aspirante statista, siano persone di ben altra importanza, che non il comico genovese e il proprietario di Rousseau. E il tweet con cui il presidente degli Stati Uniti certifica il suo elogio all’amico “Giuseppi” dice di una convergenza di interessi alti – dal Quirinale al Vaticano, passando per le diplomazie europee e alcune grandi aziende di stato – che nei giorni scorsi si sono ritrovati a convergere sulla speranza che, visto che del M5s non si può fare a meno, se non altro venga affidato al rassicurante volto di Conte il compito non solo di guidare il nuovo esecutivo, ma anche di disinnescare le follie grilline.

 

E il primo ad accorgersene è forse lo stesso Di Maio, che nel pomeriggio cominciava a nutrire sospetti sulla reale fiducia che i veri capi del M5s riponevano in lui. “Beppe non capisce i tempi della politica”, sbuffava coi suoi fedelissimi commentando l’ennesima fuga in avanti di Grillo sull’accordo col Pd. “Dandolo per fatto mi toglie potere contrattuale”, era il senso dello sfogo del leader grillino, il quale cominciava a capire che le redini della trattativa non le teneva più lui. E infatti, se è vero che spesso l’ansia di esserci testimonia della paura di risultare irrilevanti, allora diventa significativo anche lo stupore con cui, dal Nazareno, commentavano l’insistenza di Di Maio nel voler prendere parte all’incontro a Palazzo Chigi con Conte, insieme a Zingaretti e al suo vice Andrea Orlando. Come in una specie d’altalena dove al salire di un estremo l’altro sprofonda verso il terreno, Di Maio si vedeva marginalizzato dal protagonismo discreto di Conte: accade anche nel pomeriggio del giorno decisivo, quando i contatti tra Zingaretti e il premier s’intensificano e si fanno diretti, aggirando di fatto l’intermediazione di Di Maio. Il quale, del resto, proprio questo teme: e lo dimostra l’ansia con cui rivendica il suo incarico da vicepremier, impuntandosi fino a mettere a repentaglio l’intera trattativa.

  

E però di nuovo, a togliere d’impaccio il giovane leader in affanno, ci pensa Conte. Il quale riceve per tutta la mattinata le sollecitazione dei renziani. Sono loro i primi ad alzare il tiro su Di Maio, e di conseguenza su Conte; ma al tempo stesso, mentre i suoi usano il bastone dei tweet, lo stesso Renzi sceglie la carota della persuasione, e recapita a “Giuseppe” un messaggio che suona come un invito a prendere l’iniziativa. E lui lo fa. Prima smentendo le voci che volevano un ingordo Di Maio a caccia della poltrone del Viminale (in realtà il vicepremier uscente punta su quella di ministro della Difesa, spinto com’è dai suoi collaboratori a ritenere che da Palazzo Baracchini potrà ricucire i suoi rapporti un po’ logori col Quirinale, oltreché con Washington), e poi sbrogliando la matassa del vicepremierato. “Conte ha fatto una bella mossa – confessa il grillino Angelo Tofalo – a direi che di vice ne vuole due oppure nessuno”. Mossa, questa, che dovrebbe respingere l’assalto del Pd, che vorrebbe un unico vicepremier per Orlando o per Dario Franceschini. Il che, però, sarebbe troppo, anche per un Di Maio così in difficoltà, che a tarda sera dovrà subire anche le ennesime rimostranze di un gruppo parlamentare che in assemblea reclama la costituzione della tanto promessa segreteria. In ogni caso, l’accordo è chiuso, il governo ci sarà. Diventa evidente quando la delegazione del M5s e quella del Pd, coi rispettivi capigruppo, si riunisce per stilare le prime bozze di un programma condiviso a Montecitorio, nella stessa stanza che ospitò la prima riunione dei grillini insieme ai leghisti, un anno e mezzo fa, per avviare la stesura del “contratto”. E comunque, anche se il governo gialloverde non decollasse, la stella di Di Maio finirebbe per essere eclissata ugualmente. Almeno stando alle riflessioni che il grillino Stefano Buffagni, assai scettico sull’alleanza col Pd, ha consegnato ad alcuni dei parlamentari a lui più vicini: “Se si rompe coi dem, andiamo alle elezioni puntando su Conte come candidato forte anti-Salvini, e facciamo campagna sul voto utile”. Non servirà.