Strategia contro plebiscito: due modi diversi di fottere l'Europa
I parlamenti contano più delle opinioni ma la storia di Boris Johnson ha poco a che fare con quella di Salvini
A pensarci bene Boris Johnson sta davvero cercando di fare la stessa cosa tentata dal senatore Salvini: sospendere il parlamento, virtualmente scioglierlo e poi si vede. Stesso l’obiettivo: fottere l’Europa. Alla radice del tentativo un’altra analogia: difendere il principio democratico (referendum Brexit) contro il parlamento e le sue prerogative liberali. Si notano però anche le differenze.
Boris non vuole chiudere l’Inghilterra, il suo progetto più o meno attendibile è una global Britain, cioè fare di quel paese emancipato dalle costrizioni e regole di Bruxelles una piattaforma multilaterale mondiale, imperiale secondo tradizione e sogni della grande potenza marittima, un paradiso fiscale del libero commercio internazionale (niente di più lontano dal gruppo di Visegrad). La sospensione di Westminster è giustificata, secondo criteri per così dire giurisprudenziali, con tanto di discussi precedenti, dalla necessità di trattare e concludere da posizioni di forza con Barnier e la Commissione di Bruxelles il famoso deal o accordo: finché a Bruxelles sanno di poter contare sul rinvio dettato dall’ostilità dei Comuni all’uscita alla cieca, questo è il ragionamento spericolato ma sensato del premier di Londra, il negoziato metterà il Regno unito in una posizione di debolezza (come è avvenuto nel caso del withdrawal agreement di Theresa May). Senza parlamentari che votano a capocchia o per istinto e umori e calcoli sarà più facile, pensa l’ineffabile Boris, concludere qualcosa di sensato. La faccenda è spessa, e nelle intenzioni del conservatore va risolta con un gesto spregiudicato e drammatico alla Churchill, e questo gesto antiparlamentare suscita detestazione, disprezzo e acuta insofferenza in vaste aree dell’opinione politica e costituzionale britannica.
Per il senatore Salvini le cose si erano messe in tutt’altro modo. Primo. Lui non parlava a nome di una maggioranza, come Boris: la sua maggioranza era nata in parlamento e non nel voto popolare e lui l’aveva delegittimata e per così dire sciolta presentando una mozione di sfiducia contro il suo stesso governo. Secondo. La democrazia da lui difesa con l’appello ai deputati e senatori (alzate il culo e fatemi votare) e con la richiesta di pieni poteri non era un referendum tuttora inapplicato, in cui avesse vinto con il 52 per cento dei voti, ma una lunga serie di sondaggi e elezioni europee (53 per cento di partecipazione) che valgono un corposo sondaggio e nulla più (come si era visto anche con Renzi). La forza effettiva di Johnson, nella metafora retorica del conflitto tra parlamento e popolo, è il 52 per cento, quella del senatore italiano era il 17 per cento.
Ci sono poi altre distinzioni da fare. Quella di Johnson è una personalità complessa, radicata nel gusto nazionale per eccentricità e trasgressività, mentre il senatore Salvini, a partire dall’uso della lingua e della lingua del corpo, è felpato in un senso molto curioso, direi unico, nel panorama dei politici professionali (panorama a cui il senatore appartiene di diritto, non disponendo di una formazione e di un lavoro in proprio estraneo alla politica). Boris è un po’ un clown, sulla scena del teatro più estremo nella modernità europea, mentre il nostro senatore si è mostrato forse un po’ sempliciotto nella pretesa sbrigativa a un’investitura personale di spiaggia. Infatti Johnson vuole una cosa strategica per il suo paese, un globalismo che implica visione e una tecnica istituzionale grossolana ma anche a suo modo raffinata, il senatore Salvini voleva manifestamente soltanto un plebiscito su di sé, perché anche lui credo sospetti che un’Italia globale più che mozzarella e mutande non potrebbe proporre, fuori dall’Europa, ai commerci mondiali. Resta comunque il fatto che darla vinta alle opinioni contro i parlamenti, sopra tutto se con atti di forzatura, è un azzardo.