Governare i barbari
L’Europa non basta. Che cosa può fare il prossimo governo per archiviare il doppio populismo, per ridare energia all’Italia ed evitare che la pazza svolta in Parlamento diventi un regalo per i nuovi e per i vecchi estremisti. Ottimisti e pessimisti a confronto in un girotondo di idee
Trattative, condizioni, accordi e poi passi indietro e puntini sulle i e nuove condizioni, minacce, ultimatum e semiultimatum, smentite, rassicurazioni. A incarico affidato di nuovo a Giuseppe Conte e mentre era appena avviato il balletto della crisi parte seconda, con l’asticella del possibile esito che nel fine settimana è tornata a ondeggiare ampiamente tra governo rosso-giallo ed elezioni anticipate, abbiamo raccolto appunti, idee e opinioni di foglianti e no sull’ipotesi di un’alleanza Pd-M5s, ovvero sulla possibilità di romanizzare i barbari. Per sapere quale sarà, se ci sarà, il prezzo da pagare in termini di identità politica e di coesione interna per gli uni e per gli altri. Per capire che cosa può fare il prossimo governo per non far rimpiangere il precedente (basterebbe poco) e archiviare il doppio populismo. In questa e nelle pagine che seguono il ricco girotondo che ne abbiamo ricavato. Con ottimisti e pessimisti a confronto.
Una manovra finanziaria col botto
di Renzo Rosati
Per ora gli unici successi del governo 5s-Pd sono spedire Matteo Salvini all’opposizione e far tornare l’Italia un normale paese europeo; non poco ma neppure una garanzia per il futuro. Poiché la benevolenza dell’Europa e dei mercati sarà momentanea occorrere approfittarne subito. Tutto il resto si prospetta come un’operazione a esclusivo rischio del Pd, considerando anche i possibili agguati di Matteo Renzi a Nicola Zingaretti. Questa è l’incognita di cui tutti parlano e che graverà assieme alla ovvia martellante campagna di Salvini e alla congenita inattitudine al governo dei grillini. Giuseppe Conte escluso. Il Pd ha dunque una sola via: impadronirsi dei ministeri e dei centri decisionali economici chiave, cioè Economia, Sviluppo, Infrastrutture; e poi Istruzione e Viminale dove si deve tornare all’era Minniti non certo a quella Alfano. Mollando pure ai Cinque stelle le poltrone d’immagine che in Italia non contano nulla. Il Pd dovrebbe poi lasciar perdere slogan e gosplan e invece partire col botto già dalla prossima manovra finanziaria. Cioè: utilizzare la flessibilità europea e smantellare quota 100 non per fare spesa corrente ma per mettere immediatamente soldi su formazione, università e ricerca; per iniziare a ridurre ragionevolmente le tasse anziché evocare rivoluzioni redistributive; trasformare il reddito di cittadinanza in un serio sussidio di disoccupazione europeo, con obbligo vero di ricollocazione nel lavoro. Assieme, sbloccare realmente e non a chiacchiere le infrastrutture; e ripristinare pienamente Industria 4.0: l’addio di Carlo Calenda che alle europee ha preso 275 mila voti nel nord-est è un cattivo segnale. Se appronterà rapidamente queste concrete misure avrà speranze di successo; diversamente guadagnerà solo tempo verso elezioni anticipate che in quel caso arriveranno comunque, e che i rosso-gialli perderanno. Il Pd condannandosi alla scomparsa e i 5s confermandosi un incidente della storia. E riportando al potere i populisti stavolta al cubo, non solo al Papeete ma al Quirinale.
Un bordello e un miracolo (in attesa di altri)
di Sergio Belardinelli
Che bordello ragazzi! Ma forse anche un miracolo, visto l’incredibile autogol di Salvini. In ogni caso il nuovo governo sembra ormai cosa fatta. Per gli italiani c’era poco da ridere prima, quando Conte e i Cinque stelle governavano con la Lega, e c’è poco da ridere adesso che Conte e i Cinque stelle si apprestano a governare col Pd. Ammettiamo pure che sia ragionevole fare di tutto per non andare a votare, altrimenti vince Salvini. Ma siamo sicuri che da questo Conte bis non sia proprio Salvini a guadagnarci di più? Si sta per dar vita a un governo di sinistra-sinistra come non se ne erano mai visti prima in Italia, composto da due forze politiche elettoralmente non proprio in salute, che dovranno governare in un contesto nazionale e internazionale difficilissimo. L’Europa potrebbe certo darci una mano, venirci incontro, anziché porre troppi vincoli. Ma non sarebbe la prima volta, né vedo le condizioni perché questa alleanza di governo ne approfitti per prendere le decisioni che servirebbero al paese, prime fra tutte il taglio della spesa pubblica e l’aiuto alle imprese. Sul piano strettamente politico c’è poi il rischio che in questa operazione si bruci il Pd, ossia una delle due sole forze politiche non populiste rimaste sulla scena politica italiana (l’altra è Forza Italia). Possiamo permettercelo? Se è vero ad esempio che questo governo è frutto soprattutto della paura delle elezioni da parte dei Cinque stelle e della mossa di Renzi che ha costretto Zingaretti a fare un accordo che né lui né Gentiloni avrebbero voluto, credo che con questa mossa Renzi abbia messo seriamente a rischio la credibilità del Pd e bruciato le proprie possibilità di accreditarsi in futuro, magari con un nuovo partito, sul fronte moderato. Calenda sembra averlo capito. Speriamo che qualcosa incominci a muoversi anche sul fronte del centrodestra. Questo è il momento che Forza Italia prenda decisamente le distanze da Salvini, altro che accordi. Quelli si faranno eventualmente dopo le elezioni, visto che ormai stiamo per precipitare in un nuovo proporzionalismo puro, alla faccia della “vocazione maggioritaria” del Pd. Se questa presa di distanza non avverrà, nei prossimi mesi correremo paradossalmente il rischio di non poter fare opposizione al governo Conte bis perché altrimenti si consegnerebbe il paese a Salvini. Un bordello, appunto, con la sola speranza che accadano altri miracoli.
Caro elettore, sono stato al governo con Rousseau
di Andrea Minuz
Prima il bicchiere mezzo pieno: anzitutto lo struggente romanzo di formazione vagamente mélo della breve ma intensa storia del premier Conte. Nato burattino sovranista, poi diventato leader europeista, apprezzato e stimato all’estero, persino ringiovanito. Una bella storia di riscatto e tinte per capelli da uomo. Una lezione esemplare. Siamo tutti Giuseppi. Poi, certamente, i festeggiamenti per la messa all’angolo del Capitano, in punizione dietro la lavagna. Che però assomigliano a quelli sul balcone per il default. Si apre qui la sconfinatezza buia e paurosa del ben più vasto bicchiere mezzo vuoto, cioè del “gran casino” dell’accodo Pd-M5s. Si è sempre saputo (anche nei tempi più scintillanti del turborenzismo al 40 per cento) che questa cosa dell’Onestà-tà-tà dai e dai sarebbe finita al governo, ma finirci due volte, prima in versione sovranista a porti chiusi, poi in salsa egualitar-democratico-diretta, sa di accanimento. La curiosità di sapere com’è il Movimento al governo “visto da sinistra” non ci sfiora neanche un po’. La curiosità di una manovra economica che mette d’accordo fannulloni a cinque stelle e sinistra Pd mette invece i brividi. Peraltro, nella prima versione del populismo al governo, Salvini, vuoi o non vuoi, aveva comunque condotto il M5s verso una progressiva irrilevanza politica. Al Pd, al contrario, potrebbe riuscire uno di quei giochi di prestigio che riescono solo al Pd e cioè resuscitare i Cinque stelle, un movimento lacerato, diviso, sfiancato da un’esperienza di governo fallimentare (vedi flop del reddito di cittadinanza). Ora si tira fuori il “governo di necessità”; il “patto per il bene del paese”; “un populismo solo che è meglio di due messi insieme”, persino “l’unità antifascista contro il Papeete Beach”. Ma un governo giallorosso rattoppato con lo scotch sembra anche la miglior sceneggiatura possibile per la prossima campagna elettorale di Salvini, l’unica cosa che ha dimostrato di saper fare bene e che stavolta potrebbe fare anche bendato, in mutande o senza. Cosa dirà invece ai suoi elettori il Pd, dopo otto mesi di governo con Rousseau?
Il paese della fantascienza realizzata
di Mariarosa Mancuso
Non leggono i mega-presidenti delle mega-ditte che guadagnano fantastilioni senza pagare tasse all’altezza, gente che con le loro diavolerie cambia la vita anche ai più renitenti (pensate, solo dieci anni fa, a come erano diversi i giorni, le vacanze, il cinema e quasi ogni altra cosa). Figuriamoci se leggono i politici, e figuriamoci se leggono i politici italiani che vantano la propria vicinanza al popolo, e figuriamoci quelli impegnati a formare un nuovo governo per la salvezza della nazione. Ci proviamo lo stesso, un libro da consigliare lo avremmo. Anzi, un racconto. A statisti così occupati a tessere tele di giorno, e a disfarle la notte, non possiamo rubare troppo tempo.
Nel 1904 H. G. Wells – lo scrittore di “La guerra dei mondi”, nessuna parentela con Orson Welles – pubblicò un racconto di fantascienza intitolato “Nel paese dei ciechi” (in altre traduzioni, modello Elio e Le Storie Tese, “La terra dei ciechi”). In una remota valle isolata dopo un’eruzione vulcanica, c’è un paese in cui tutti gli abitanti hanno perso la vista. I bambini nascevano con gli occhi malati, il volontario andato a cercare una cura non era riuscito a tornare per una frana. Quindici generazioni dopo, gli abitanti vivono serenamente: non vedono nulla, non ricordano di aver visto, non hanno nostalgie per il mondo là fuori. Finché nel paese arriva un giovanotto, vede le case senza finestre con le pareti dipinte a casaccio e pensa a un imbianchino incapace. Soltanto dopo un po’ si accorge che ciechi sono tutti, e però il villaggio prospera. Non capisce però che la popolazione si è messa d’accordo per accecarlo, levandogli l’orribile difetto che gli dà alla testa. Lui invece si aspettava di essere incoronato re, o capo supremo, per manifesta superiorità visiva. Il racconto è terrorizzante quanto istruttivo. Ogni cosa può essere ribaltata, cambiando il punto di vista. Ogni posizione di privilegio può rovesciarsi nel suo contrario. Ogni vantaggio può diventare uno svantaggio. L’Italia è il paese della fantascienza realizzata.
Lasciateli un po’ copiare
di Giuseppe De Filippi
Della forza fondativa del Movimento 5 stelle resta pochissimo e quel pochissimo è inutilizzabile e meno male così. Con Giuseppe Conte nel ruolo di titolare fisso a Palazzo Chigi si è sancito il ruolo dei grillini, valido almeno in questa legislatura, come grande correntone doroteo a disposizione della maggioranza di turno. A rafforzare questo schema c’è il lento affermarsi di un embrione di entità politica autonoma costituita dai gruppi parlamentari Cinque stelle, un battaglione di governisti refrattario ad assecondare le ambizioni personali di Luigi Di Maio e perfino dei veri capi, ideologici e aziendali, del movimento. I Cinque stelle arrivano a questo estremo tentativo di sopravvivenza sapendo o intuendo che alle prossime elezioni dovranno comunque raccontare un’altra storia, non più quella di chi vietava i due mandati o che ostracizzava la stessa idea di fare alleanze parlamentari (ormai le hanno fatte con tutti) e tutta l’altra paccottiglia antipolitica che conoscete, compresa, ovviamente, quella strategia fondativa fatta di odio per il Pd. La cosa più probabile è che diventino, sempre seguendo l’estro di Conte, una specie di partitone assistenzialista, un’opzione politica ideologicamente neutra con qualche sentore di buon senso seppure qualunquista. Perché questa cosa resti vendibile elettoralmente ha bisogno di qualche copertura ideologica, altrimenti diventa peronismo e da queste parti non attecchisce. Il Pd ne ha da vendere e da regalare. Il buon Giovanni Tria, portatore di una visione equilibrata della politica economica, era diventato un faro politico durante i 14 mesi del governo Cinque stelle e Lega, non guardate a critiche e nervosismi che lo hanno circondato, la sua linea passava sempre e ha, di fatto, consentito la vita di quel governo. Il Pd può mettere in campo un buon numero di ministri ed esperti (il governo si manda avanti più con i consiglieri in gamba che con i super ministri). I Cinque stelle copieranno o insomma una sbirciatina su come si guida un ministero la daranno. La loro scarna ideologia, depurata dell’ossessione antipolitica, può prestarsi a sostenere qualsiasi pratica governativa, compresa quindi quella europeista e solidale e favorevole all’iniziativa economica temperata da interventi sociali. Il governo dei due populismi non poteva stare in piedi (e lo ripetiamo sono stati i non populisti inseriti d’ufficio, come Tria o Moavero, a rendere possibile un’azione di governo), questo secondo tentativo può avere qualche sviluppo invece e può vivere senza ministri imposti. Si tratta di lasciarli un po’ copiare, come facevano a scuola quelli bravi ma non cattivi.
La rischiosa alchimia di un’alleanza
di Chicco Testa
E’ grande il rischio che si prende il Pd accettando di formare un governo con i pentastellati. Naturalmente vale anche il viceversa. Se dopo la cura Salvini i Cinque stelle non superassero la prova Pd la loro estinzione sarebbe dietro l’angolo. Perché l’esperimento abbia successo sono necessarie diverse condizioni. La prima riguarda i Cinque stelle. Qualcuno ha affermato che questo movimento (partito?) sia come la plastilina. Malleabile dall’ultimo che ci mette le mani perché privo di una struttura propria. Uno dopo l’altro sono caduti i dogmi inconsistenti dei Cinque stelle. L’uno conta uno (e Di Maio conta per tutti), lo streaming, la trasparenza, i due mandati e soprattutto il rifiuto di ogni alleanza. Ma tutto questo non ha prodotto una seppur minima Bad Godesberg grillina, come sarebbe stato logico. Una qualche visione del mondo che non sia l’oscillare continuamente fra il vaffa e il trasformismo. Né una seria struttura decisionale ha preso il posto della illegittima triade piattaforma Rousseau/BeppeGrillo/Casaleggio. Saprà in questa seconda prova fare un salto di qualità? A giudicare dall’enfasi sui 10 punti, una somma di radicalismi e pensieri vuoti, direi di no. Il rischio è che questa cultura vuotamente massimalista si incroci con alcuni vecchi vizi della sinistra. Il Pd del referendum sull’acqua pubblica per capirci. Della spesa pubblica. Dei sussidi elargiti in nome della lotta alla povertà , che finiscono per rafforzarla anziché sconfiggerla. Dell’ambientalismo sexy, ma inefficace. Nella mozione con cui Zingaretti ha vinto la sua corsa alla segreteria, piuttosto lunghetta, due parole latitavano: debito e crescita. Nell’ultimo documento della Direzione Pd ambedue sostituite dal riferimento al “nuovo modello di sviluppo”. Ingrao 30 anni dopo. E i fondamenti veri della crisi italiana bellamente ignorati. Ben altra storia sarebbe se il Pd avesse voglia di portare nell’azione di governo il meglio della sua cultura riformista costringendo i Cinque stelle al duro esercizio dell’aritmetica e del gradualismo. Ma temo che il vecchio adagio “nessun nemico a sinistra” finisca per prevalere con danni collaterali permanenti. Che renderebbero inevitabile una ulteriore scissione e una lunghissima traversata nel deserto. Poi c’è Renzi. Che ha il dovere di difendere un’impostazione riformista. La svolta ci può stare, turandosi un poco il naso. Ma ci vogliono motivazioni solide. L’Iva non è la nuova Brigata rossa che rende inevitabile il compromesso. Certo, c’è anche la necessità di fermare Salvini e questa è una motivazione più forte. Ma se il tutto avverrà con un consistente arretramento della cultura riformista e con un surplus di giustizialismo pentastellato, si sarà distrutto un patrimonio costruito con fatica e si sarà fatto un ulteriore passo in avanti sulla strada del populismo al potere. E lì c’è chi sa interpretarlo meglio.
Svelenire il clima, Parlamento centrale
di Antonio Spadaro
Abbiamo vissuto una crisi di governo davvero singolare, sia per il momento nel quale è avvenuta sia per le sue modalità. In un mese si è sprigionata una polarizzazione che ha agitato gli animi e ha diviso gli italiani. I social, oltre a restare efficace piattaforma di discussione, sono diventati il tubo di scappamento dei sentimenti peggiori. Primo compito di chi governa il nostro paese è quello di svelenire il clima che si è creato, ponendo al centro i valori fondanti dello stare assieme. Dobbiamo poterci riconosce tutti innanzitutto come cittadini, come popolo. L’avversario politico non deve essere inteso come “nemico”, e questo è possibile se ci si confronta sui fatti e le proposte, non sulle retoriche da campagna elettorale. Bisogna smettere di definire “inciucio” le regole della nostra democrazia parlamentare o di considerare i cittadini come followers. Il Parlamento deve diventare nuovamente centrale. Un paese si distrugge uccidendo la capacità di unire, e le regole servono anche all’unità. Ci vogliono dunque gesti di inclusione.
Non ho ricette per depurare il clima politico, anche se nel gennaio scorso su La Civiltà Cattolica avevo indicato sette parole per il 2019 che, a rileggerle oggi, mi sembrano valide in questo frangente. In ogni caso credo prioritarie alcune cose.
1. Bisogna innanzitutto dare un taglio al clima da perenne campagna elettorale in cui il paese è stato gettato. Il governo agisca con serenità, affrontando i problemi con compostezza.
2. Un punto di sintesi sul quale lavorare molto per svelenire le tensioni è la valorizzazione della cittadinanza e della partecipazione, che va incentivata in un tempo in cui gli italiani si sentono estranei al potere. Occorre recuperare l’effettività dell’essere cittadini altrimenti la democrazia si atrofizza e si rischiano innamoramenti per i “capitani” di turno. Una seria riflessione sulla legge elettorale, a mio parere, fa parte di questo percorso.
3. Per svelenire il paese il governo deve affrontare lo stato di disagio profondo della classe media, anche frutto del carattere globale dell’economia e della finanza. Si deve ripartire dalla questione sociale (disuguaglianze, povertà, lavoro) e varare misure a sostegno delle famiglie e della natalità (al di là delle retoriche ascoltate in questi ultimi mesi), dei disabili e per l’emergenza abitativa. Bisogna lavorare sulla sostenibilità, sulla crescita sostenibile, sulla tutela di beni e servizi (scuola, acqua pubblica, sanità…).
4. Il tema delle migrazioni va affrontato efficacemente e in un quadro europeo, ma va spenta la propaganda che ha visto i migranti vittima di un tentativo di distrazione di massa dai veri problemi sul tappeto. Il risultato è stato l’emergere di un sentimento di razzismo, xenofobia e di disprezzo dei diritti umani e della solidarietà, persino delle Ong, potenzialmente devastante per la coesione sociale.
5. Infine: in questi mesi è stato incentivato l’odio strumentale per le istituzioni europee. Il risultato ha rischiato di essere l’isolamento e l’irrilevanza internazionale dell’Italia. Occorre ricostruire una narrativa che ribadisca l’impegno e l’appartenenza leale all’Unione europea per migliorarla.
Se il dibattito politico è indispensabile, la polarizzazione lo stronca. Dobbiamo tornare alla politica. Ne va della sanità della nostra democrazia, il nostro bene prezioso.
Usare la tecnologia per un big bang fiscale
di Andrea Tavecchio
Il vincitore di questa strana estate politica italiana è Giuseppe Conte. Sembrava impossibile 18 mesi fa, ma così è stato. Il premier incaricato sta dando una forma non antisistema a un movimento di matrice illiberale e nato sul Vaffa ed è riuscito a far sembrare, per la prima volta, Salvini non adeguato a essere leader. Il nuovo governo – se nascerà – sarà quindi caratterizzato da Conte. Il Pd per evitare di consegnarsi – quando questo governo andrà a casa – ai destini politici di Conte, anche come potenziale concorrente specie sull’area moderata, deve preoccuparsi di indicare una squadra di ministri in grado di far percepire che il Pd è classe dirigente e non un caminetto di capicorrente. Deve usare l’opportunità di questo inaspettato governo Conte bis per dimostrare che ha idee e persone con la capacità di realizzarle.
Non sapendo quando potrà durare il governo, penso che sia importante che nei primi 100 giorni – e qui torna l’esigenza di ministri competenti in grado di gestire i dossier da subito – si facciano partire una serie di iniziative ambiziose. Policy destinate a rimanere nel tempo. In campo fiscale si dovrebbe lavorare a un abbassamento della tassazione delle persone fisiche, non in modo selettivo ma universale, finanziata grazie alla modifica della dichiarazione dei redditi in cui è da inserire anche una parte di rendiconto patrimoniale. Come ad esempio in Svizzera e negli Stati Uniti. Una dichiarazione che abbia non solo elementi reddituali, ma anche tutti gli elementi patrimoniali renderebbe veramente complicato giustificare incrementi patrimoniali non giustificati da donazioni o eventi straordinari.
Come si potrebbe far partire – come in Francia – una grande apertura dell’utilizzo dei dati pubblici sulle compravendite immobiliari per dare modo al mercato immobiliare di diventare più efficiente e fluido, evitando così che rimangano – grazie all’uso dei big data – spazi per elusioni fiscali. Usare la tecnologia per un big bang fiscale. Pagare meno tasse, pagarle tutti.
Va bene i barbari, ma chi sarebbero i romani?
di Pasquale Annicchino
Caro direttore, risulta davvero difficile provare ad approntare una minima analisi in un paese dove ormai tutto appare possibile. Ritornano potenti le parole scolpite su pietra da Ennio Flaiano: “Non chiedetemi dove andremo a finire perché ci siamo già”. Di solito, nell’eterno cinismo stanco che si respira nelle vie della capitale, l’aspirazione alla “romanizzazione” dei barbari appare come l’ultimo scoglio a cui aggrapparsi per giustificare manovre politicamente estrose e dalle sicure conseguenze nefaste. Perché probabilmente a essere sbagliata è la premessa del ragionamento. Mentre sappiamo bene, anche questa volta, chi sarebbero i “barbari” a me non risulta chiaro chi invece siano i “romani”. Pur non volendo entrare nel merito delle idee dell’attuale segretario del Pd (e molto ci sarebbe da dire), basta restare al metodo che ha portato alla composizione di questo governo: non sarebbe potuto succedere in nessun altro paese del mondo. E questo non dipende dai “barbari”. O almeno solo da loro. La “romanizzazione” sarebbe allora operazione complessa da compiere e, a questo punto, non so quanto auspicabile. Mi rifugio allora, come sempre nei momenti di difficoltà politica, nelle pagine del Codice della vita italiana di Prezzolini: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi […] I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini”. E mi sento ancora una volta un fesso. Non perché sia particolarmente attaccato ad alcuni principi, magari giusto qualcuno ce lo teniamo, o no? Ma perché, per esclusione, questo mi sembra il governo dei furbi. Tertium non datur, caro direttore: sono un fesso.
Situazione: ieri disastrosa, oggi sgradevole
di Sergio Scalpelli
E se fosse un gigante politico? Se Conte, la cui candidatura a una rinnovata premiership è emersa in tutta la sua forza col discorso al Senato del 20 agosto scorso, fosse il costituzionalizzatore del Movimento 5 stelle? Altro che Berlusconi con l’Msi nel 1993!
I Cinque stelle sono nati come forza dichiaratamente populista, con una carica eversiva formidabile, hanno svillaneggiato in ogni occasione la democrazia rappresentativa, hanno sposato idiozie come la decrescita felice e dato fiato e rappresentanza a imbecilli di ogni risma, dai terrapiattisti ai no vax, passando per i no-tutto. E, ancora, non hanno alcun nesso con le tradizioni politico-culturali che ci hanno consentito di essere fondatori e protagonisti della costruzione europea. Ecco. Costituzionalizzare, urbanizzare, “romanizzare”, nel senso della civiltà politica di Roma, una simile forza sembrerebbe impossibile. Eppure in meno di 30 giorni, il bello della politica, l’ardua impresa sembrerebbe apparire possibile.
Tanti tra noi hanno pensato che essendosi il movimento grillistico ridotto a fare lo scendiletto della Lega, fosse ragionevole favorire in ogni modo la consunzione del Movimento e giungere a un conflitto autentico e duro, tra società aperta e sovranismo, recuperando, se possibile il pezzo liberal popolare del centrodestra alla lotta. Un destino, non una scelta. Fino alla irruzione sulla scena del “genio tattico” di Salvini e alla contromossa di autentica genialità di Renzi. E siamo entrati nel mondo nuovo. Un premier incaricato che appare e forse è, con tutta evidenza, emanazione del gruppo della sinistra indipendente, che ha ben chiaro l’iter di rottamazione della piattaforma Rousseau, che vuole, fortissimamente vuole, ricostruire una percezione di affidabilità dell’Italia nel mondo, che sa di poter contare sulla robustezza e professionalità dei ministri che tra tecnici e Pd renderanno plastica la differenza tra chi lavora e legge i dossier di governo e chi non lo fa. Se la domanda è, può farcela Conte? da solo? la risposta è, non è solo, perché il suo partito di riferimento, il Pd, ha tutte le caratteristiche per essergli di aiuto e, non da ultimo, il fatto di aver ritrovato, il Pd, un minimo comune denominatore e un livello di coesione accettabile aiuterà molto. Però mi raccomando, tenere bene fino al 2022, eleggere il presidente della Repubblica (il compagno Conte stesso?), legge elettorale proporzionale, un po’ di abilità negoziale con l’Europa, e non farsi esplodere in faccia la questione settentrionale (sarebbe un errore imperdonabile). Ciliegina sulla torta far sì che il centrodestra torni a essere centrodestra come è stato per settant’anni in tutto l’occidente, con un centro egemone e una destra subordinata. Mettiamola così, se un mese fa la situazione mi appariva disastrosa, oggi sembrerebbe tutt’al più sgradevole. Sempre che non si pensi a patrimoniali, ancorché mascherate.
E se barbarizzassimo un po’ i romani?
di Chiara Geloni
“E adesso? Romanizzare i barbari?”, mi invita al girotondo il direttore Cerasa. Ma invece il pensiero che mi fa sognare è come sarebbe bello barbarizzare un po’ i romani. Basta governi con Alfano, basta opposizioni con Forza Italia, basta perfino mezzi simboli a Calenda. Ah se il Pd si facesse crescere un po’ la barba, alzasse le vele, accettasse la sfida. Se guardasse negli occhi chi voleva abbattere il sistema (quando il sistema era lui, il Pd), gli desse un buffetto sulla grisaglia e memore dei suoi anni migliori gli dicesse: guarda che io sono la sinistra. Guarda che se voglio a questo gioco io sono più bravo di te. Io sto in politica per cambiare il mondo, come te, ma da prima. Vediamo un po’ come fare, e chi è più bravo.
Un imprevisto è la sola speranza, diceva don Giussani citando Montale. Un governo pazzo magari è l’ultima occasione. Riprendere la strada non è trasformismo, semmai è saggezza. O magari è un colpo di fortuna. Ne hanno bisogno entrambi di ritrovare la strada, gialli e rosé. Di ritrovare voti, anche, sebbene avranno una maggioranza più grande di quella di prima. Ah se abbassassero i ditini con cui si rinfacciano da anni difetti, superbie e cialtronaggini, e provassero a parlare al paese insieme, a dire: abbiamo capito, adesso cambiamo. E ripartiamo dalla Costituzione, dalle istituzioni democratiche, dall’Europa, perché su questo ci siamo incontrati. E poi mettiamo al primo posto la grande questione sociale, del lavoro della scuola della salute del fisco. Dell’uguaglianza, uh, si potrà dire uguaglianza?
Una cosa è necessaria però: nessun ministro torni al posto dove stava prima. Se proprio non ce la fate a fare una squadra tutta nuova, almeno niente rivincite. Andateci liberi al governo, liberi di testa e di bagagli. Avete tutti con voi, da Trump a Papa Francesco: non dovete dimostrare niente a nessuno, se non ai vostri (ex) elettori. E se a qualcuno domani verrà in mente di staccare la spina perché pensa che gli conviene, ricordategli solo che adesso c’è una parola per definire un’idea del genere: salvinata.
Avranno la guerra, e senza alcun Churchill
di Ritanna Armeni
Alla fine è nato. Anche se il parto si annunciava difficile, c’era un’ostetrica esperta e una madre molto collaborativa. Ma il neonato è gracile, il cuore batte debole. E’ nato, ma sopravvivrà? Ce la farà il governo di Giuseppe Conte? L’aria più pulita, liberata dal lezzo di un uomo politico autoritario, xenofobo, primitivo che chiedeva tutti i poteri, basterà a dargli la forza necessaria per respirare, per muoversi e agire? C’è chi lo spera. L’aria, liberata dalle parole e dall’azione del capo leghista, raggiungerà livelli più salubri, la democrazia riprenderà il suo corso, ricomincerà a scorrere nel suo alveo naturale.
Ci sarebbe da augurarselo. E da tirare un sospiro di sollievo. Ma non sarà così. Per vivere, il neonato governo non ha bisogno solo di un ambiente meno inquinato, ma di proposte, vere, precise, che segnalino almeno la possibilità di un cambiamento nella vita di tanti, che conquistino non solo il Parlamento ma la testa, il cuore e la pancia, di chi, in questi ultimi mesi, è stato cullato dalla sirena salviniana e ha fatto proprie le parole, gli umori, i gesti, la flatulenza di un uomo che pensava di soggiogare paese e istituzioni.
Chi ha dato alla luce il neonato non sa come farlo crescere. Il Pd propone un buon governo, retto da un rigore aggiornato e un europeismo subalterno. La sua cultura è ormai irrimediabilmente inquinata dal governismo burocratico di chi, per paura di perdere, non sa più rivolgersi al popolo. Il Movimento 5 stelle ha dalla sua solo la forza di un antico populismo sporcato però dalla politica antimigratoria e dai decreti sicurezza, divenuto moderato, quindi friabile, poco attraente e che, proprio nei mesi del precedente governo, ha trovato nella Lega un terreno più solido nel quale insediarsi. Di sicuro il neonato governo avrà la benevolenza dell’Unione europea per la prossima manovra. Eppure non basta.
Il punto non è, come sostengono molti osservatori, che è nato da due partiti diversi, con punti di vista e proposte in contrasto fra loro, uniti solo dalla paura di uno scontro, quello elettorale, che, probabilmente, sarebbe stato perdente. Il punto è che nessuno dei due ha ora proposte forti, capaci di coinvolgere, di cambiare l’economia e i sentimenti del paese. E lo sanno, lo sanno tanto bene, che hanno preferito l’accordo istituzionale al conflitto elettorale. “Potevano scegliere – disse Winston Churchill, dopo l’accordo di Monaco – fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra”. Sì ci sarà la guerra e, purtroppo, non c’è nessuno che assomigli anche lontanamente al cancelliere inglese.
Destra e sinistra subalterne ai populismi
di Sergio Soave
L’imbarbarimento della vita nazionale si esprime in due fenomeni, correlati anche se contraddittori. Da una parte c’è la caduta dell’autorevolezza a tutti i livelli (dai genitori che aggrediscono gli insegnati ai pazienti che rifiutano le cure o addirittura i vaccini), dall’altra la ricerca di un autoritarismo che ponga fine a questa crisi dell’autorità. I Cinque stelle hanno dato voce al primo fenomeno con una campagna di “vaffa”, Matteo Salvini al secondo, autonominandosi comandante di non si sa bene che cosa. Per superare questa situazione (che non è solo italiana, anzi ha effetti ancora più clamorosi per esempio nei paesi anglosassoni) bisogna restaurare un’autorevolezza basata sul merito e sulla competenza. Non lo può fare un governo raccogliticcio e contraddittorio come quello che si sta formando: il governo però può fornire il tempo necessario perché si sviluppino iniziative politiche che sappiano presentare questa prospettiva.
Naturalmente anche la durata del governo, e quindi della tregua, dipende da una serie di fattori, prevalentemente esterni e quindi incontrollabili, mentre le sue correzioni, specie in campo economico, sempre che vadano nella direzione giusta dell’elevamento della produttività, il che è assai dubbio, potrebbero ottenere risultati solo nel medio periodo. Non saranno quindi gli eventuali successi del governo a cambiare il clima nazionale avvelenato dalle varie e opposte campagne di “indignazione” che dominano da anni il marketing politico.
Per tornare al confronto (ma c’è mai stato davvero in Italia?) tra una destra e una sinistra civili e reciprocamente rispettose, sarebbe necessaria una rigenerazione di questi due campi, che ora sono di fatto subalterni ai populismi. Si può farlo, per la sinistra, da posizioni di governo, se non ci si illude che sia il governo a garantire questa trasformazione. Lo si può fare, nella destra, dall’opposizione, senza farsi travolgere dall’attivismo leghista? Non so rispondere in modo speranzoso, so solo che sarebbe necessario e utile, il che naturalmente non garantisce che avverrà. Anzi.
Il rischio di finire dove avrebbe voluto portarci Salvini
di Carlo Stagnaro
Il Governo Conte-bis, più che del nuovo umanesimo, dovrebbe (pre)occuparsi della vecchia matematica. Con l’espulsione della Lega dalla maggioranza, l’Italia si presenta ai partner europei e ai mercati con un volto meno truce: tutti gli esponenti della nuova maggioranza fanno professione di fede europea e nessuno dice di voler uscire dall’euro. Tuttavia, ci sono due strade per uscire dall’euro: muoversi consapevolmente in quella direzione (come forse voleva Matteo Salvini e come certamente chiedevano i suoi principali consiglieri economici) oppure farlo senza rendersene conto. Come la legge non scusa l’ignoranza, l’economia non scusa la faciloneria. Tutto ruota attorno ai due numeri che dovranno risultare dalla prossima legge di Bilancio: i rapporti deficit/pil e debito/pil. L’Italia si trova sotto infrazione per debito eccessivo. E’ solo la “clemenza della corte” che ci ha risparmiato una analoga procedura per deficit. La precaria tenuta del nostro bilancio pubblico poggia sulle clausole di salvaguardia, cioè, essenzialmente, sull’incremento automatico dell’Iva per un gettito di circa 23 miliardi di euro nel 2020 nell’assenza di altri interventi di pari entità (maggiori tasse o minori spese). Finora, i messaggi lanciati e le policy evocate dai “contraenti” sembrano spingere il nostro saldo di bilancio verso o addirittura oltre la soglia del 3 per cento, mentre delle pluri-annunciate privatizzazioni per contenere il debito non c’è neppure l’ombra. Se Pd e M5s non seguiranno il sentiero stretto dell’equilibrio di bilancio (richiesto tanto dagli impegni europei quanto dall’articolo 81 della Costituzione, e quotidianamente misurato dal termometro dello spread) rischiamo di trovarci, senza Salvini, dove avrebbe voluto portarci Salvini. Per prevenire l’Ital-exit è certamente necessario smettere di predicare l’uscita dall’euro, ma più ancora bisogna farla finita con politiche incompatibili con la permanenza nella moneta unica e con l’idea sottostante che non c’è crescita senza spesa. Non fiori ma opere di bene: non omaggi verbali ma rigore contabile.
Ma l’elettorato non sarà romanizzato
di Lorenzo Castellani
Il cambiamento di maggioranza in un sistema parlamentare non scandalizza. Si può però legittimamente dubitare dell’opportunità politica di certe strategie. Giuseppe Conte sarà presidente del Consiglio di una maggioranza formata dal suo partito con quello che era il principale partito d’opposizione al suo precedente governo. Una mossa che spinge il parlamentarismo ai limiti delle sue possibilità con il rischio di indebolire tanto i partiti quanto la fiducia degli italiani, già molto bassa, nella politica rappresentativa. Molti ritengono che questa manovra sia necessaria per riallineare il paese a Bruxelles ed evitare di consegnarlo al sovranismo di Salvini. Sull’opportunità di questa strategia aleggiano almeno tre grandi dubbi. Il primo è attinente a quella che Giovanni Orsina su queste colonne ha chiamato “romanizzazione dei barbari”, per intendere il percorso di normalizzazione delle forze populiste. Tuttavia, il governo giallorosso riuscirà forse a “romanizzare” solamente i Cinque stelle, ossia il partito populista che ha maggiormente accusato l’esperienza di governo e che era già stato di fatto moderato dalla stessa Lega. Ciò che invece non sarà “romanizzato”, è quell’elettorato che lascerà i pentastellati per l’astensione o per unirsi ai “barbari” che già seguono Salvini e Meloni.
In altre parole, si rischia lo scivolamento e la coagulazione a destra di tutto il messaggio antipolitico, anti-establishment ed euroscettico. Siamo certi che con un governo giallorosso nato in questo modo, l’estremismo, specie nei confronti dell’Europa, di una consistente porzione dell’elettorato non verrà rinfocolato piuttosto che smussato? A volte la cura rischia d’esser peggio della malattia.
Il secondo dubbio riguarda l’esclusione del settentrione. I due partiti di governo sono molto deboli a nord del Po e c’è da chiedersi se si possa governare bene l’Italia senza un consistente appoggio dell’area più produttiva del paese. A questa domanda si ricollega il terzo dubbio e cioè il rapporto tra il nascente governo, il suo programma e le ricette per la crescita economica. C’è più di un motivo per sospettare, infatti, che politiche di spesa sociale, irrigidimento del mercato del lavoro, nuove tasse, regolamentazione ambientale e aggressione fiscale del risparmio possano fare parte del menù giallorosso. Tutto ciò vale la pena solo per impedire al centrodestra di vincere le elezioni? Un governo di coalizione e una legge di bilancio difficile avrebbero “romanizzato” Salvini e soci assai più dell’opposizione inferocita che faranno al Conte-bis. Oltre questi dubbi c’è una buona notizia. E’ possibile che, se non prevarranno le tentazioni proporzionali, il quadro politico si semplifichi nel prossimo futuro tornando a uno schema bipolare tra destra e sinistra, ove ognuno potrà agevolmente scegliere da che parte stare.
Il rebus del rapporto con la Cina
di Gennaro Sangiuliano
E ora l’agenda del nuovo governo propone un interessante rebus, quello del rapporto con la Cina che dovrà essere giocato secondo uno schema non più bilaterale ma che tenga conto delle visioni dell’Unione europea e soprattutto di quelle della Casa Bianca. Donald Trump ha fatto della lotta alla Cina il tratto distintivo della sua presidenza, Pechino è molto di più di un ingombrante competitor economico, è, nella visione del presidente americano, il vero e nuovo antagonista degli Stati Uniti sullo scacchiere globale. Se Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica l’impero del male, salvo poi aprire una trattativa con Gorbaciov, Trump ritiene che la Cina persegua un disegno egemonico mondiale e che la “Via della Seta” ne sia il cavallo di Troia. E su questo Washington, come nella contrapposizione a Mosca, reclama la piena adesione degli alleati storici.
Quando in occasione della visita di Xi Jinping in Italia si è deciso di aderire alla “Belt and Road Initiative” gli Stati Uniti si sono fatti sentire con una dichiarazione del portavoce del National Security Council e assistente speciale del presidente Trump, Garret Marquis: “L’Italia non ha bisogno degli investimenti cinesi, quindi aderire alla ‘Via della Seta’ è un errore”. Preoccupazione condivisa dall’Europa che attraverso l’allora portavoce dell’Ue commentò: “Gli Stati membri devono difendere l’integrità dell’Unione. Nessuno può raggiungere obiettivi con Pechino senza unità”. In quei giorni il Pd depositò un’interrogazione al Senato, a prima firma di Alessandro Alfieri, capogruppo in commissione Esteri nella quale chiedeva di chiarire la posizione dell’Italia soprattutto in relazione al report sottoscritto dagli ambasciatori europei nell’aprile 2018. Del resto, lo stesso Emmanuel Macron, il più aperto alla globalizzazione dei leader europei, quando sbarcò a Pechino, il 9 gennaio del 2018, invocò reciprocità nei rapporti con la Cina, chiedendo “regole bilanciate”.
In verità, l’Italia ha sempre spiegato che avere rapporti economici con il gigante cinese, cosa che storicamente hanno fatto prima di noi e in maniera corposa la Germania, la Francia e gli stessi Stati Uniti, non significa cedere a Pechino ma solo sviluppare opportunità. La questione è sul tappeto.
Obiettivo dopo aver visto l’abisso: la crescita
di Franco Debenedetti
Abbiamo visto l’abisso: il rischio, per la prima volta nella storia repubblicana, che un’elezione conferisse a una maggioranza il potere di superare i paletti messi dai padri costituenti a difesa della nostra democrazia. E abbiamo comperato tempo: non abbiamo eliminato il rischio, ma l’abbiamo dilazionato. E’ costato caro, al paese, non solo alle forze politiche che l’hanno contrattato: per evitare di aver buttato capitale politico bisogna mettere mano a un programma di governo che dia la garanzia di disinnescarlo.
Un primo punto dovrebbe essere rassicurante. Ci aveva già contribuito, (rara intuizione o provvida distrazione?) il M5s votando a favore della presidente Ursula von der Leyen. Borghi e Bagnai forse conserveranno la presidenza delle rispettive commissioni parlamentari, ma ormai la loro è una vox clamantis in twitterio. Una buona designazione per il nostro commissario, il rassicurante presidio di alcune posizioni chiave, e la nostra posizione dovrebbe essere consolidata. Ma il governo deve avere un punto focale, una “mission”, come è diventato di moda dire, e questo non può che essere la crescita: solo se questo governo avrà fatto riprendere al paese il cammino della crescita si potrà dire che il capitale politico messo in gioco per vararlo è stato bene investito. Certo crescita vuol dire pil, vuol dire partecipazione al lavoro. Ma vuol dire anche sgombrare il campo dalle ingombranti macerie, comunicative e legislative, disseminate dal precedente governo. E’ un progetto che deve coinvolgere tutti, imprese e dipendenti, lavoratori e pensionati, élite e popolo, nord e sud, chi verrà posto nelle posizioni apicali della pubblica amministrazione e chi delle aziende che il pubblico controlla. Riguarda i “barbari”, ma riguarda anche i “romani”.
Percorrere quella strada è il percorso necessario per “romanizzare” i “barbari”: l’avevano a lungo demonizzata, allettando invece a incamminarsi per la via degli “dei falsi e bugiardi”. Essi devono dimenticare – e far dimenticare – l’urlo sguaiato che è stato il loro big bang. Ma anche i “romani”, che vorremmo che li guidassero, devono guardare con attenzione ogni passo che fanno. Sarebbe un disastro se, mentre gli indicano la strada, perdessero (e in non pochi casi non riprendessero) le posizioni riformiste con tanta fatica conquistate. A loro abbiamo affidato il compito di rappresentare e difendere i valori disprezzati o attaccati dal populismo: il canto di quelle sirene ha pericolose assonanze, se vi cedessero avremmo perso tutto.
Obiettivo: una legge proporzionale scolpita nel marmo
di Francesco Cundari
Comunque la si pensi sul governo rossogiallo (giallorosso è un termine che non merita simili accostamenti, di confusione tra politica e calcio ce n’è già abbastanza, e comunque, semmai, bisognerebbe parlare di governo rosso-nero), insomma, quale che sia il nostro giudizio sul governo Pd-M5s – il mio oscilla tra disgrazia necessaria e disgraziata necessità – mettiamoci d’accordo, almeno, sulle metafore. Per “romanizzare i barbari”, civilizzare gli incolti e alfabetizzare gli analfabeti bisognerebbe prima essere ben sicuri di avere a disposizione, se non proprio qualche maestro, almeno dei discreti studenti di diritto romano, filosofia greca e letteratura latina. Lasciamo perdere.
Per i paralleli storici, abbiamo esempi assai più recenti. Il Movimento 5 stelle è quello che ha importato in Italia temi e slogan del nuovo nazional-populismo, dai deliri sulla “sostituzione etnica” pianificata dal plutocrate Soros a tutti i relativi corollari complottistici più e meno recenti (compresi i Protocolli dei Savi di Sion, pubblicamente rilanciati dal senatore Elio Lannutti, tuttora al suo posto). Matteo Salvini non ha fatto altro che copiare, nel merito e nel metodo, con Luca Morisi al posto della Casaleggio Associati, mettendoci solo un po’ più di coerenza. Un gioco al rialzo che ha costretto Giorgia Meloni a rispolverare parole d’ordine direttamente dagli anni Trenta, e speriamo di fermarci qui. Di conseguenza, tutti i discorsi sulle origini, le radici e gli ideali “di sinistra” dei Cinque stelle sono nel migliore dei casi un’ingenua fesseria, a meno che non si intendano allo stesso modo le radici socialiste di Benito Mussolini, o del nazionalsocialismo: non è poi storia così nuova questa del movimento popolare che difende i lavoratori abbandonati dalla sinistra, e lo fa combattendo le élite finanziarie in difesa della tradizione e della purezza etnica dei popoli europei.
Se dunque questo governo Pd-M5s s’ha da fare, perché l’alternativa è il serio rischio di uscire dalla democrazia liberale, dall’euro e dall’Europa, il minimo che gli si può chiedere è che ponga le condizioni affinché un simile rischio non possa presentarsi mai più, mettendo le istituzioni democratiche e lo stato di diritto al riparo dai capricci della maggioranza di turno (che poi dovrebbe essere il senso stesso dell’espressione “stato di diritto”). Dunque legge elettorale proporzionale scolpita nel marmo, così da garantire che nessun vincitore possa mai fare cappotto. The winner takes all è una filosofia che va bene al tavolo da gioco, non quando si tratta dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini.
E allora il Pd!
di Saverio Raimondo
Il Conte 2 (che secondo Di Maio è 1 perché il primo è da considerarsi un Mandato Zero) nasce non per fermare Salvini, non per scongiurare l’aumento dell’Iva, non per un complotto dell’Europa, ma per aiutare una persona malata di mente: l’avvocato Giuseppe Conte, il quale è affetto da un grave disturbo della personalità. E’ mitomane: crede di essere il presidente del Consiglio. Gliel’hanno fatto credere Di Maio e Salvini per un anno; e quando poi il secondo ha provato a spiegargli che non è vero, Conte ha dato in escandescenze. A nulla è valso l’affetto dei famigliari, soprattutto del figlio Niccolò (“Dai papà usciamo, compriamo un telefonino nuovo!”): Conte si è presentato al G7 di Biarritz come presidente del Consiglio italiano; e indicando il vuoto accanto a lui diceva ai potenti della Terra che lo guardavamo allucinati “Vi dispiace se ho portato un amico?”. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che di matti se ne intende (ne vede uno tutti i giorni allo specchio), lo ha assecondato; e a quel punto tutti dietro (l’Europa, il Vaticano) per paura che “Giuseppi” potesse dare ulteriormente di matto e compiere qualche gesto sconsiderato. Solo che a quel punto il mitomane, vistosi improvvisamente circondato dall’affetto unanime, ha cominciato a sentire una vocina nella testa che gli diceva “Tu non sei il presidente del Consiglio; tu sei il presidente della Repubblica!”; ed è stato visto dai corazzieri a tarda notte armeggiare con le serrature del Quirinale. Allora Mattarella ha chiamato i 5s e gli ha detto “Voi avete creato il problema, ora voi lo gestite!”; e i 5s hanno risposto dettando le rigide condizioni per un’alleanza: basta che respirino. La presidenza della Repubblica ha allora suggerito il Pd (dato per morto, alla fine respira sempre); e il Pd, per giunta sensibile al tema dalla sanità (mentale compresa), ha ceduto al diktat quirinalizio: “Datemi una mano a fargli credere nuovamente di essere presidente del Consiglio, o una di queste sere me lo ritrovo nel letto!”. Ora il Pd deve spiegare ai 5s come si governa, e magari prima come si legge, si scrive e si fa di conto; mentre i 5s devono dire alla propria base che non è vero che il Pd fa le scie chimiche o provoca l’autismo. Intanto, pare abbiano risolto il problema del voto all’alleanza su Rousseau: alla fine del quesito, al posto di un punto interrogativo, ci mettono un bel punto esclamativo e così diventa un’affermazione.
In tutto questo, neanche un minuto di silenzio per Matteo Salvini, deceduto a causa di un selfie pericoloso finito male: voleva fare una diretta Facebook in cima ai pieni poteri, ma ha perso l’equilibrio ed è precipitato giù dal governo.
Una ristrutturazione dell’offerta politica
di Massimo Adinolfi
Perché si fa un governo? Perché lo prevede la Costituzione. Qualcuno che avesse la sagacia e l’aspirazione alla longevità politica di un vecchio notabile democristiano potrebbe cavarsela con una risposta del genere. Forse è la risposta che darebbe più volentieri lo stesso presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe (o Giuseppi) Conte, per il quale il cambio di maggioranza – all’insegno della novità, opportunistica vox media tra la richiesta di discontinuità di Zingaretti e l’abbarbicata continuità di Di Maio – non solo non significa il trasloco da Palazzo Chigi, ma comporta addirittura una promozione di rango e un sorprendente incremento di autorevolezza. Mi piacerebbe essere un giorno nei panni del suo biografo, e dello storico che da questa vicenda potrà trarre indicazioni forse definitive sul rapporto fra gli italiani e l’arte di governo.
Cosa può darci, però, l’opera dell’arte? Mi auguro qualche ricucitura, dopo l’anno bruttissimo appena trascorso tra continui strappi: mai consumati fino in fondo, in realtà, e tuttavia sempre minacciati, per tenere alta la temperatura del consenso, grazie al sempreverde espediente del capro espiatorio, applicato ora ai migranti, ora a Bruxelles e dintorni. Ma se il vessillo del governo sarà la novità, io di certo non me l’aspetto in materia di conti, dove, presumo, si farà giusto il necessario, senza grandi ambizioni di riforma della struttura della spesa pubblica o di riordino del sistema fiscale. Forse, si potrà dimostrare una certa alacrità su fronti meno divisivi per la precaria base parlamentare (ambiente, Mezzogiorno, lavoro): con spirito pragmatico, si spera, e senza chiusure ideologiche. In altri ambiti, penso alla giustizia o alle riforme costituzionali, rimanere fermi significherà non peggiorare le cose: con un certo pessimismo, dico che potrebbe essere già un buon risultato. A meno che qualcuno non pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari sia la panacea di tutti i mali, o che i tempi dei processi si accorcino sospendendo la prescrizione. Resta la vera novità, che a mio giudizio, se il governo dovesse durare, si produrrà volens nolens: la ristrutturazione dell’offerta politica. Alla linea di partenza la prossima legislatura vedrà in campo nuove formazioni: a sinistra, a destra e pure al centro, forse per effetto di una nuova legge elettorale. Dopo un quarto di secolo e metodi di procreazione piuttosto artificiali, c’è ancora il rischio di un ennesimo aborto. Che va corso, tuttavia (a voler esser lieti, senza molte certezze del domani).