L'adulazione, malattia mortale della leadership
"Intorno a me voglio gente grassa", dice il Giulio Cesare di Shakespeare. La corte di ieri, lo staff e i consiglieri di oggi. In libreria "Il metodo Machiavelli": un viaggio in prima persona nei corridoi e nelle anticamere del potere
Il 3 settembre esce in libreria “Il metodo Machiavelli” di Antonio Funiciello (Rizzoli, 256 pp., 19 euro), di cui anticipiamo qui un ampio stralcio del quinto capitolo. L’autore è stato capo dello staff del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
C’è una scena del Giulio Cesare di Shakespeare, la seconda del primo atto, a cui mi è capitato di pensare spesso negli anni trascorsi, con vari incarichi, dentro le istituzioni italiane. Durante quell’esperienza mi è capitato di conoscere molti leader politici e non di rado ho avuto la netta sensazione – mentre li osservavo, e loro osservavano me o issavano lo sguardo su altri – di rivivere la scena nella quale Cesare, uscendo dall’arena dopo la corsa dei cavalli, si lamenta con Antonio di come Cassio lo guardi.
Immaginate sullo sfondo la confusione e il frastuono dell’arena e, attraverso un corridoio di passaggio, Cesare col suo seguito che abbandona i giochi. Mentre Cesare guadagna l’uscita, incrocia lo sguardo di Cassio. Si issano per qualche frazione di secondo. Quindi Cesare chiama il suo preferito Marco Antonio: “Antonio...” gli dice, “... intorno a me voglio gente grassa, dalla testa liscia, e che dorme la notte. Quel Cassio è troppo magro e famelico. Pensa troppo. Uomini così sono pericolosi”. Antonio prova allora a difendere Cassio e a tranquillizzare Cesare: “Non lo temere, non è pericoloso”. E aggiunge: “E’ un nobile romano ed è ben disposto”. E Cesare: “Vorrei che fosse più grasso. Non che io lo tema, ma se dovessi aver paura di qualcuno, non so chi eviterei più di quel macilento Cassio. Legge molto, è un grande osservatore e sa guardare nel fondo delle azioni umane. Non ama il teatro, come lo ami tu. Non gli piace la musica. Sorride raramente e, quando gli capita, lo fa per farsi beffa di se stesso e irridere il suo spirito per aver ceduto a sorridere di qualcosa”.
Cesare non ha torto nel diffidare di Cassio, che sarà uno degli ideatori della congiura che gli procurerà la morte. Eppure, è vero che ai leader, in genere, non piace avere intorno gente che ne biasima scelte e comportamenti. Abbiamo visto che a Louis Howe era consentito di mandare al diavolo il leader del mondo libero. Non era una posa o un vezzo intellettuale: esercitava una funzione critica nei confronti del potente e del potere. Nel prossimo capitolo indagheremo in profondità questa funzione, verificando come essa sia, a conti fatti, la forma di potere indiretto più forte che un consigliere abbia a disposizione. Ma è anche la più complessa e rischiosa.
I leader continuano a circondarsi di lacchè e piaggiatori. Come mai? In parte perché uno dei pochi conforti alla solitudine della leadership viene proprio da questa categoria di consenzienti cortigiani. D’altra parte, come ha spiegato Plutarco, un leader, un uomo con alta stima di sé, è il primo adulatore di se stesso
Il Cassio che ci descrive Shakespeare è un uomo dubbioso della condotta di Cesare, pur militando nella sua corrente. Cesare, in effetti, sta accumulando un potere enorme nelle sue mani, tale da mettere in discussione l’esistenza stessa della Repubblica. Secondo Cassio e Bruto, quella situazione ha già, di fatto, messo in crisi l’equilibrio costituzionale romano. L’espressione di cruccio e di rimprovero del nobile Cassio si spiega in questo modo. Ma il Cesare di Shakespeare preferisce avere intorno gente grassa – la pinguedine sta ovviamente a simboleggiare l’appagamento dei sensi e d’ogni ambizione. E allegra. Gente che, piuttosto di esercitare l’irritante pratica della critica, sia provetta nelle carezze melliflue dell’adulazione.
Vale la pena ricordare che Dante nella Divina Commedia spedisce gli adulatori all’Inferno, nella seconda delle Malebolge, condannati a essere immersi nello sterco fino al busto: “Ed elli allor, battendosi la zucca: / Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca”. Così, a Dante e Virgilio, descrive la sua condizione Alessio Interminelli, un leccapiedi lucchese. Eppure, nonostante l’atavico e terribile ammonimento, i leader continuano a circondarsi di lacchè e piaggiatori. Come mai? In parte perché uno dei pochi conforti alla solitudine della leadership viene proprio da questa categoria di consenzienti cortigiani. D’altra parte, come ha spiegato Plutarco, un leader, essendo un uomo con alta autostima di sé, è il primo adulatore di se stesso. E non disdegna che altri lo confermino del buon giudizio che ha di sé. Il problema, però, resta. […]
Un inner circle la cui unica funzione è compiacere il capo, diventa una specie di arena in cui i collaboratori fanno a gara a chi sa adulare meglio il leader. Una guerra tra poveri menti, una zuffa tra gladiatori della moina, che appesta della propria mediocrità chiunque si trovi a passare da quelle parti. Circondarsi di leccapiedi è il segno delle difficoltà o della decadenza di un capo e genera un circolo vizioso: i cortigiani non solo si sbracciano per esaudire ogni desiderio del leader, ma realizzano che, se diminuisce il suo potere, si riduce anche la sua capacità di proteggerli. Meno lacchè il capo può tutelare, più i lacchè gareggiano per essere super lacchè: un teorema inconfutabile della politica.
Ma è una gara senza vincitori: gli adulatori non durano a lungo. Lo spiega bene Francesco Guicciardini nei Ricordi: “Chi depende dal favore de’ principi, sta appiccato a ogni gesto, a ogni minimo cenno loro, in modo che facilmente salta a ogni piacere loro: il che è stato spesso cagione agli uomini di danni grandi. Bisogna tenere bene el capo fermo a non si lasciare levare leggermente da loro a cavallo, né si muovere se non per la sustanzialità”.
La corte e i suoi problemi
Quanto è vero che esistono i leader, intorno a ognuno di loro esisterà sempre una corte. Al suo interno troviamo la stanza dei bottoni, abitata dal leader, e l’anticamera del potere, alloggiata dai suoi consiglieri. Ma la corte è molto più vasta e in essa dimora una grande varietà di genti. Gabriel Naudé, consigliere prima del cardinale Richelieu, poi del suo successore, Mazzarino, ha scritto nel 1639 alcune acute Considerazioni politiche sui colpi di Stato. In questo libro compare una definizione amara e ancora attualissima della corte: “E’ il luogo dove, più che in ogni altra parte del mondo, si dicono e si fanno sciocchezze, dove le amicizie sono più capricciose e interessate, gli uomini più falsi, i signori meno affezionati ai loro servitori e la fortuna più folle e cieca”.
Chiunque abbia frequentato gli entourage dei leader del nostro tempo sa bene che gli eccessi retorici di Naudé non sono fuori luogo. Descrivono, però, solo una parte della verità. Perché per un buon numero di sciocchezze compiute, c’è un numero più piccolo, ma non irrilevante, di cose ben fatte. Il servilismo è diffuso e disgustoso, ma talora intorno ai leader si può assistere anche a manifestazioni di lealtà e a notevoli prove di sapienza politica. C’è solo una cosa che è esattamente come la descrive Naudé: la fortuna; che, in effetti, è proprio folle e cieca.
Trecento anni dopo, Carl Schmitt sembra dialogare col consigliere di Richelieu e Mazzarino, quando parla in questi termini dell’anticamera del potere: “In questa anticamera ha vissuto e prosperato nel corso della storia umana una società composita e proteiforme. Vi si riuniscono coloro che fruiscono indirettamente del potere. Incontriamo ministri e ambasciatori in alta uniforme, ma anche confessori e medici personali, aiutanti e segretarie, servitori e mantenute, il vecchio Fredersdorf, consigliere personale di Federico il Grande, accanto alla nobile imperatrice Augusta, Rasputin accanto al cardinale Richelieu, un’eminenza grigia accanto a una Messalina. Talvolta si tratta di uomini abili e saggi, talaltra di manager fantastici o onesti amministratori, talaltra ancora di carrieristi e di imbroglioni”.
Dentro questa confusa miscellanea di varia umanità, uno dei problemi più gravi, per le corti antiche come per quelle dei nostri giorni, è sempre stato il familismo. La presenza di familiari al servizio del leader può creare enormi problemi di funzionamento dell’anticamera del potere. Nella visita alla Casa Bianca dell’aprile 2017 al seguito del presidente Gentiloni, non poteva passare sott’occhio la nonchalance dei familiari di Trump in giro per le stanze della residenza, durante la visita ufficiale di un capo di governo alleato. Nello staff di The Donald la figlia Ivanka e suo marito Jared Kushner godono di uno status speciale. Rispondono direttamente al presidente e si muovono in assoluta libertà rispetto agli altri membri dello staff. Uno dei motivi dei continui licenziamenti e delle frequenti dimissioni che hanno caratterizzato i primi due anni della sua amministrazione sono da ricondurre, secondo parecchi osservatori, proprio a tale situazione.
Non che non si sia mai visto nulla del genere. L’elevato tasso di familismo presente nell’anticamera del potere della famiglia Kennedy, per esempio, è stato spesso biasimato da più di uno storico. Anzi. Non c’è stato forse gruppo di lavoro alla Casa Bianca più chiuso di quello che girava intorno a JFK, il quale arrivò a nominare suo fratello Robert capo della campagna elettorale, quindi ministro della Giustizia. Al momento del suo tragico assassinio, Kennedy era basso nei sondaggi, molti suoi sostenitori erano delusi e avevano organizzato, per manifestare il proprio scontento, la famosa marcia su Washington per il lavoro e la libertà. L’inerzia mostrata da Kennedy nell’azione di governo aveva indispettito anche molti nel Partito democratico. Le cause andavano trovate nell’eccesso d’introversione di Camelot e nelle logiche familistiche dell’entourage kennediano, per l’appunto.
Se un certo familismo, dunque, accomuna Kennedy e Trump (e pazienza se a molti il paragone potrà suonare sacrilego…), c’è da aggiungere, tuttavia, che il problema del ruolo della famiglia presidenziale ha gradualmente assunto in America una forte rilevanza politica. Infatti, si è provato a istituzionalizzare all’interno dell’amministrazione una dose ragionevole, fisiologica, di familismo attraverso il ruolo della First Lady.
A partire da Eleanor Roosevelt l’incarico è diventato via via sempre più cruciale. Di fatto, la moglie del presidente è uno dei suoi principali consiglieri. Dalla metà degli anni Settanta, la First Lady ha un suo staff e un proprio budget. Lavora tantissimo, ma non viene pagata. I presidenti Reagan e Obama hanno giustamente criticato l’assenza di un salario, che non è al momento previsto in virtù della natura non elettiva della carica. L’argomento ha un suo fondamento, per carità, ma risulta decisamente debole, considerata la quantità e qualità dell’impegno quotidiano cui sono soggette le First Lady.
La rilevanza di questo ruolo, peraltro, cambia da Paese a Paese. In Europa, per esempio, assume valore più per le caratteristiche soggettive della moglie del leader o del marito della leader, che non per ragioni strettamente istituzionali. Quando sono emerse personalità di spessore, come è accaduto per esempio nel caso di Cherie Booth, moglie di Tony Blair, o di Joachim Sauer, marito di Angela Merkel, il ruolo ha attirato l’attenzione degli osservatori. Questa posizione, del resto, può avere anche un peso specifico all’interno del cerchio magico di riferimento. Le famiglie, insomma, continuano a contare negli staff di oggi, come nelle corti del passato.
In effetti, la società di corte descritta nell’omonimo libro dal sociologo tedesco Norbert Elias conserva, fin dai tempi di Luigi XIV, alcune regole elementari di gestione e funzionamento: il sistema delle dispense, le consuetudini legate all’etichetta, i protocolli del cerimoniale e, soprattutto, la complessa articolazione e distribuzione degli spazi. Così come è necessario tollerare la varia umanità che abita le corti, allo stesso modo è sensato e prudente avere rispetto per le corti in quanto luoghi fisici del potere. Le cui caratteristiche danno conto di ragioni storiche ben precise, sedimentate nel tempo. Ci sono motivi che solo la storia insegna per i quali, per esempio, il Quirinale è una delle più grandi residenze di un capo dello Stato del mondo occidentale. Ci costerà sempre caro mantenerlo. E tuttavia la rinuncia a conservarlo nel suo splendore artistico sarebbe la prova indiscutibile dell’imbarbarimento definitivo della civiltà italiana.
Saper vivere i luoghi del potere e saper collaborare con chi li vive, sono obiettivi alla base del buon funzionamento di uno staff. La gerarchia, che deve sempre qualificare l’organizzazione di un gruppo di assistenti di un leader, si evince anche dai differenti luoghi che ai singoli vengono assegnati. Il primo problema che mi fu sottoposto nel dicembre del 2017, avendo assunto l’incarico di capo staff del premier Gentiloni, fu proprio quello dell’assegnazione degli uffici. E rappresentò una delle questioni più complicate da affrontare.
Non tutti possono alloggiare negli uffici più belli e, soprattutto, in quelli più vicini al leader. Solo l’utilizzo di criteri coerenti con il metodo di organizzazione prescelto può motivare sensatamente l’attribuzione degli spazi ai membri dello staff. Il familismo e le simpatie personali sono da evitare. Un leader comincia a produrre buona politica facendo lavorare bene chi gli sta attorno. Ed ecco perché la scelta del capo staff o del suo braccio destro resta la più delicata di tutte. Perché è proprio a lui che il leader delega la funzione della gestione e dell’esecuzione delle sue direttive.
Contro il pensiero unico, contro gli adulatori
I cerchi magici sono un fenomeno piuttosto ordinario. Nulla di strano che tra il leader e un numero ristretto di persone si stabiliscano rapporti di consuetudine e amicizia. E nulla di strano che negli inner circle ci si affatichi a prendersi cura del leader.
Dentro questa confusa miscellanea di varia umanità, uno dei problemi più gravi, per le corti antiche come per quelle dei nostri giorni, è sempre stato il familismo. La presenza di familiari al servizio del leader può creare enormi problemi di funzionamento dell’anticamera del potere
Spesso, però, è proprio in questa tenace attività di cura del capo che si annida il rischio dell’adulazione. Bisogna sempre tenere presente, infatti, che lo staff è l’unico campione del consorzio umano con il quale il leader può quotidianamente relazionarsi. E’ rapportandosi con i suoi consiglieri che un politico sperimenta la fondatezza e la popolarità della scelta che ha compiuto. Nulla di peggio, quindi, di avere uno o più adulatori tra i propri collaboratori. Gli trasferiranno un appagante ma pericoloso senso di conferma e rassicurazione. Il pensiero unico è il veleno che intossica qualsiasi leadership. Perché i capi non hanno, non possono avere, sempre ragione.
Ma che cosa succede quando si genera una divergenza di opinione o un contrasto vero e proprio tra il consigliere e il leader? In questi casi è indispensabile mantenere i nervi saldi. Nella mia esperienza, la maggior parte delle volte che mi sono trovato in dissenso col mio capo, ho dovuto alla fine ammettere che era lui ad aver visto giusto. Dopotutto, un leader è tale anche perché, il più delle volte, è lui ad avere ragione.