Se questo sarà un governo

Che cosa potrebbe e dovrebbe fare il Conte 2 per archiviare il doppio populismo e per ridare energia all’Italia. Gli spazi di manovra Pd-M5s. Girotondo di idee

Appesi al responso dell’oracolo Rousseau e in attesa di vedere come lo prenderanno Movimento 5 stelle, Partito democratico e premier incaricato, ecco un altro giro di appunti, idee e opinioni sul governo rosso-giallo in formazione. E sull’eventualità che riesca a romanizzare i barbari.

 

Nelle pagine seguenti gli interventi di Alessandro Maran, Giuseppe De Bellis, Luciano Vescovi, Serena Sileoni, Umberto Minopoli, Stefano Quintarelli, Gianluca Comin e Alberto Irace.

 

La prima puntata la trovate qui

L’ennesima illusione di redenzione

di Alessandro Maran

 

Claudio Cerasa ha definito l’esecutivo rossogiallo che sta per nascere un “governo sbagliato per una giusta causa”. La “giusta causa”, la “svolta” che giustifica un governo “contro natura”, ovviamente è quella di porre freno al populismo, disfarsi del sovranismo e riportare l’Italia in una traiettoria occidentale ed europea.

 

Sbaglierò, ma non credo che si possa fare tutto questo con il M5s, un partito nato come una forza antisistema, ostile alla democrazia rappresentativa e alla funzione del Parlamento; una forza nemica dell’integrazione europea e ostile a tutte le culture politiche che hanno permesso all’Italia di trovare il suo posto nel mondo; una forza carica di rancore, che ha nel suo codice genetico l’odio per la modernità, lo sviluppo, le libertà economiche e l’impresa.

 

Un’alleanza di governo tra il Pd e il M5s rappresenta la rinuncia all’idea di poter offrire un’alternativa al populismo e rischia di provocare un’altra situazione dannosa e ingarbugliata che produrrà fatalmente una nuova delusione vittimista e piagnona e l’ennesima illusione di redenzione.

 

Oltretutto, da un pezzo i fatti si sono incaricati di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la presunta “emergenza democratica” (di cui, prima che arrivasse Salvini, si è molto parlato ai tempi di Craxi, e poi di Berlusconi, invocando un nuovo Cln per liberare l’Italia dal berlusconismo, e poi di Matteo Renzi, denunciando i pericoli autoritari insiti nella resistibile ascesa di “un bulletto che aspira a diventare un Leviatano”) ma la mancata modernizzazione del paese; e hanno chiarito, se ancora ce ne fosse bisogno, che un paese che non cresce da vent’anni rischia il declino, l’“argentinizzazione”, e che la nostra stabilità sta diventando ogni giorno più precaria e le nostre debolezze sempre più pericolose. E proprio perché, come l’Argentina (e gli altri paesi latini e cattolici), l’Italia è un paese a bassa intensità liberale, sia a livello politico che economico; proprio perché l’Italia e la Spagna non si sono trasformate in democrazie prospere per mano di robusti partiti liberali, ma come risultato di una crescita lenta e precaria della pianta liberale dentro partiti che non avevano nulla di liberale; proprio perché dalle nostre parti sono in troppi ancora a credere a chi racconta loro che si possano piantare gli zecchini in qualche campo dei Miracoli, ritengo che una scelta coraggiosa, quella di far svegliare la coscienza dell’Italia contro chi l’ha portata nello stato pietoso dove oggi si trova, sarebbe stata la scelta giusta. Anche perché se si continuano a trattare gli italiani come se fossero dei bambini, continueranno a comportarsi da bambini: il fatto che l’Iva aumenti è un segnale chiaro di come le politiche economiche del governo (invocate dalla maggioranza degli italiani) siano state dannose per il paese, sì o no? “La mia non è una politica del consenso ma del convincimento”, sosteneva per l’appunto Margaret Thatcher. Salvini è chiaramente un populista ma non un fascista (anche se ne sfrutta i gesti e i simboli); e contro un populista si reagisce con una battaglia di idee. Specie se si considera che quello che sta nascendo tra Pd e M5s (e Leu) non è affatto un “governo di scopo” e, per molti, non è affatto un’intesa “contro natura”. Sono in parecchi a coltivare il sogno di un nuovo centrosinistra all’interno del quale i grillini dovrebbero occupare l’ala sinistra dello schieramento e contribuire a consolidare un nuovo bipolarismo destra-sinistra (ma sarebbe meglio dire Salvini e anti Salvini). E c’è chi pensa che l’esperienza di governo potrebbe diventare, addirittura, il cantiere di una fase costituente di una nuova formazione politica. I grillini sono in fondo una pagina dell’album di famiglia della sinistra italiana (una pagina obsoleta quanto si vuole, ferma ad analisi insostenibili quanto si vuole, ma che un tempo facevano parte di un patrimonio comune a moltissime persone). E ciò che li rende figli della stessa tradizione culturale non è la lotta alla corruzione, bensì il catastrofismo radicale, l’ossessione per la purezza, la demonizzazione del nemico, l’idea che il peccato pervada il mondo e che a un gruppo di pochi eletti spetti il compito di purificarlo. Non è certo da oggi che in Italia “los redentores” si contendono i fedeli. Non è certo la prima volta che l’Italia che redime batte l’Italia riformista. Ma “los redentores” con la sinistra moderna (vale a dire una sinistra riformista in grado di combattere un sistema di valori antitetico alla modernità) non hanno mai avuto niente a che fare. Il rischio più grande è quello di dimenticarlo. Magari proprio per una forma di snobismo.

Il nodo della questione settentrionale

di Giuseppe De Bellis

  

Contenere, incanalare, gestire. Quindi romanizzare. Cioè: il Pd che rende potere chi potere non vuol essere, ma forse inevitabilmente ha cominciato a essere proprio adesso. E’ la distanza tra la percezione e la realtà, ed è in quel divario che il Pd s’è già intrufolato per normalizzare l’onda pentastellata che nel governo gialloverde s’era infilata nel cono d’ombra di Salvini. Ma il tentativo logico può essere anche il sintomo del più grande rischio del nascente governo, ovvero la questione settentrionale. Perché i numeri rivelano chiaramente da tempo la distanza dal Nord: i Cinque stelle non hanno mai sfondato, il Pd ha progressivamente perso consenso chiudendosi nelle ridotte dei centri benestanti delle grandi città (Milano, Torino, Genova). Non è solo una questione numerico-elettorale, anche se prima o poi a quello si arriva. E non è neanche una questione di pura geografia. Il rischio che si vede è il distacco culturale e ideale dalle istanze, dai bisogni, dalle domande della parte più produttiva del paese. E’ quel mondo delle infinite piccole/medie imprese territoriali e delle piccole imprese multinazionali, dei gioielli dell’industria, della manifattura, dei servizi, in cui la distanza tra imprenditore e lavoratore s’è azzerata o quasi, dove la conflittualità sindacale è inesistente, dove si fa sviluppo e si chiedono infrastrutture, velocità, spirito d’iniziativa. E’ quel mondo di sindaci di piccole medie cittadine che si alleano coi privati per fare crescere occupazione e dunque pil. Per non parlare delle grandi imprese internazionali che hanno scelto le loro sedi nelle aree metropolitane del Nord e dall’altro lato delle sconfinate piantagioni di partite Iva unipersonali. Se la base della trattativa per il programma contiene parole come patrimoniale, ridistribuzione, salario minimo o provvedimenti come riduzione della platea degli aventi diritto all’aliquota forfettaria, ciao ciao Nord. E però senza Nord non esiste l’Italia.

 

Lavorare per l’Italia che sarà tra vent’anni

di Luciano Vescovi

 

Scordarsi i sondaggi fino al 2023. Agire come se fino ad allora non si votasse mai e avere il coraggio di perderle, eventualmente, le prossime elezioni. Questo è l’atteggiamento che distingue il politicante dallo statista. Quello che oltre alle proprie legittime aspirazioni, è conscio dell’onere di avere una responsabilità nei confronti delle future generazioni. Questo nuovo governo sembra rappresentare una sorta di trampolino di rilancio per molti leader politici; ma se durasse fino a fine legislatura, cosa tutta da verificare, avrebbe la grande chance di lavorare per il 2039, per l’Italia che sarà tra vent’anni. Ci sono tante cose che dovevamo fare 20-30 anni fa e che non abbiamo fatto, ma il “secondo” miglior momento è questo.

 

Tra esse ne vorrei indicare tre. In primis si dovrebbe avere il coraggio di tagliare la spesa pubblica improduttiva, togliere prebende a inutili carrozzoni e chiudere i pozzi senza fondo nella pubblica amministrazione scordandosi perciò di poter godere di quel bacino di voti francamente dopato a cui tutti aspirano.

 

In secondo luogo, come accade in buona parte dell’Europa, permettere che le scuole assumano direttamente gli insegnanti, in perfetta autonomia e responsabilità. Dando poi loro la possibilità di premiare i docenti in base al merito e non all’anzianità. In Italia nessuno ha il coraggio di toccare la scuola, se non per inserire elementi di appiattimento verso il basso. Se non cambia la politica di selezione del personale docente e non si garantisce autonomia nella didattica, sia a livello regionale sia a livello di singolo istituto, il declino è certo.

 

Infine è insensato continuare a buttare nelle discariche milioni di tonnellate di rifiuti solo perché non si vogliono realizzare i termovalorizzatori. Molte capitali europee hanno i termovalorizzatori in centro città, noi invece spediamo all’estero i rifiuti di Roma, inquinando mezza Europa con i gas di scarico dei camion che li trasportano. E poi, non paghi, ripianiamo con 12 miliardi di decreto Salva Roma i debiti della Capitale.

 

Un governo serio sul fronte della spesa pubblica vedrebbe inoltre scendere il debito anche perché potrebbe rifinanziarsi a costi nettamente inferiori agli attuali, avviando così un circolo virtuoso. Ma ci vuole coraggio e statura morale. Questo distingue Mattarella dagli altri, oggi. Speriamo di rimanere positivamente sorpresi.

Spazi di governabilità superiori

di Serena Sileoni

 

Il nuovo governo Conte che, forse, a giorni nascerà non è così innaturale e nemmeno così folle. Non lo è né dal punto di vista delle regole di politica costituzionale né da quello del merito politico. Le prime non impongono di governare solo con i propri compagni di lista o coalizione. Quelle, casomai, sono le regole elettorali, e l’attuale legge, per la sua vocazione proporzionale, si presta proprio ad alleanze da “Prima Repubblica” (dove partiti con piattaforme programmatiche e basi elettorali lontane sono in grado di coalizzarsi o su progetti comuni o su ragioni di scambio politico).

 

Tuttavia, lo stridore suscitato dai modi di risoluzione di questa crisi non è infondato. In primo luogo, non va sottaciuto il paradosso di una forza politica che ha basato il suo successo sul Vaffa contro i vecchi partiti e che si è trovata, in tempi record di poco più di un anno, a stringere consecutivamente alleanze proprio con i due più vecchi partiti politici del paese. Una gran delusione per i suoi elettori, così attenti a tenere le distanze con chi c’era prima, per definizione marcio e corrotto.

 

A livello più generale, invece, lo stridore dipende dal fatto che del periodo a vocazione maggioritaria sono rimasti i toni di un immaturo conflitto. Le alleanze di governo non sono una bestialità, sono però una contraddizione irritante laddove i rappresentanti dei partiti sono abituati, ahinoi, a insultare il nemico politico anziché argomentare contro le sue idee, a screditare le persone anziché le loro proposte. A causa di questo livello sempre più volgare di discussione pubblica, il governo nasce con le più ostili premesse, ma i suoi spazi di governabilità, con un premier mediatore come Giuseppe Conte, potrebbero essere di gran lunga superiori al precedente, se il Pd sapesse dimostrarsi compatto.

 

A ben vedere, è molto più naturale un’alleanza tra Pd e M5s, specie con Zingaretti segretario, che non tra Salvini e Di Maio. (Hanno più in comune il reddito di inclusione e quello di cittadinanza che non quest’ultimo e quota 100. L’idea di giustizia del ministro Bonafede è più simile a quella del suo predecessore Orlando che non alla legittima difesa di Salvini. Renzi, prima di di Maio, ha sempre sostenuto la necessità di far sentire una voce più stentorea ai tavoli di Bruxelles). Per l’anno o poco più che potrà durare, sarà il governo della spesa e della protezione sociale al posto della protezione della “Nazione” (in questa alleanza che potrebbe essere tenuta insieme da qualcosa di più forte della estromissione del Truce). Un’opportunità, per chi crede non solo che gli -ismi di Salvini vadano spenti ora o mai più (auguri!), ma anche per chi crede necessario uno Stato fortemente interventista.

 

Ma la vera grande opportunità potrebbe essere un’altra. Chissà che gli italiani, dopo aver assistito a un esempio da manuale di strategia e tattica politica, imparino che la politica non distingue alleati e avversari, ma chi governa e chi no. Gli uni da una parte, il Terzo Stato dall’altra. Se da ciò sorgesse una giusta dose di diffidenza verso i primi, le loro promesse elettorali e i rigorosi principi morali che inneggiano, sarebbe un’opportunità ben colta.

Continuità e discontinuità, lodo raccapricciante

di Umberto Minopoli

  

Questo governo è una matita che si regge sulla punta: il fragilissimo equilibrio tra un leader incolore, privo di un progetto, legittimato dall’esterno e due partiti deboli, esautorati e commissariati, alle prese con esigenze di visibilità. Questo fragile equilibrio basterà a varare il governo. Non basterà a farlo navigare. La disimmetria di potere tra il premier e i partiti ( che le élite si illudono sia un vantaggio) sarà la fonte dell’instabilità. C’è uno sforzo, in queste ore, di sherpa e opinionisti pro-governo per trasformare i 20 punti di Di Maio, che hanno diviso frontalmente Pd e populisti nel decennio passato (sostenibilità ambientale intesa come decrescita, antindustrialismo ecc.) in un equivoco sorpassabile, tranne qualche scoglio (inceneritori, trivelle, legge elettorale, jobs act) su cui “non scherziamo, dicono gli ottimisti, la quadra si troverà”: con qualche maquillage retorico e un po’ di sacrifici (altri ?) e buona volontà del Pd. L’esercizio degli sherpa ha del patetico. Esempio: dopo un anno di polemica feroce, gli sherpa (e i commentatori tifosi) hanno scoperto che, in fondo, il reddito di cittadinanza è solo un Rei con più soldi. Quindi… Insomma, dopo il cedimento sulla guida del governo, la discontinuità verrà meno anche sui contenuti programmatici. Il Conte 2 sarà questo: continuità col Conte 1 su ciò che i Cinque stelle hanno realizzato grazie a Salvini (Dl sicurezza, misure assistenziali, quota 100) e discontinuità su ciò che i Cinque stelle non hanno potuto realizzare, sempre grazie a Salvini, del loro programma di decrescita. Questo lodo (raccapricciante) basterà a varare il governo giallorosso. Non basterà a una marcia tranquilla. I 20 punti che gli sherpa assorbiranno con astuzia retorica (e i pregi infiniti della lingua italiana) saranno continui starnuti green che si trasformeranno in polmonite per il buon Conte. Il grossolano ottimismo di marmellata degli sherpa si scontrerà subito con due inciampi: la manovra e la riduzione dei parlamentari. Il Pd avrebbe dovuto seguire il consiglio dato, mi pare, da Gentiloni: accordarsi, prima di ogni trattativa, sui tetti del deficit e i vincoli della manovra di bilancio. Sarebbe stato saggio. Non sono chiare agli ottimisti due cose: che è una sciocchezza pensare che al Conte 2 verrà concessa più flessibilità che al Conte 1. Anzi, forse in Europa si aspettano un Conte 2 che riconfermi gli impegni del Conte 1 (lettera di capitolazione alle condizioni del deficit all’1,6 per cento). E non perché quelli di Bruxelles non siano simpatizzanti che vogliono dare una mano. Ma perché il ciclo economico in Europa non consente il keynesismo allegro su cui confidano gli sherpa. Allentamenti e maggiore espansività, probabilmente, saranno considerati solo in chiave di rigida golden rule: selettivi sforamenti per spese di investimenti. Ma non per spesa pubblica improduttiva e di alimento del debito sovrano. L’Italia non possiede di risorse per la crescita (golden rule) se non attingendo a quelle sprecate dal Conte 1 per impieghi assistenziali e di spesa pubblica corrente (Rdc e quota 100). Se non li cancella, parlare di golden rule e di flessibilità è pura retorica e compromesso che durerà l’espace d’un matine. A tutto questo aggiungete i 25 miliardi di Iva da recuperare. E le risorse per il taglio del cuneo fiscale (su cui il Conte 2 si gioca la faccia). Per quanto ottimismo facilone i simpatizzanti del governo spendano, la quadra non sarà semplice. Secondo: il taglio dei parlamentari. Anche qui, per ingraziarsi Di Maio e ingolosirlo tutti si sono affrettati a concedergli una bomba a orologeria. Il taglio non si può, letteralmente, fare se non si pone mano o a riforme del sistema parlamentare (contro il rischio di instabilità) o all’ennesima riforma della legge elettorale (in chiave di completa evoluzione in senso proporzionale). Ora, a parte il totale e definitivo cedimento del Pd alle ragioni del No del 2016 (una soperchieria) il tema vero è: voi (sherpa) pensate davvero, a cuor leggero, che sia intelligente reinfilare “questo governo” nel pantano dell’ennesima bagarre della legge elettorale o di riforme del funzionamento parlamentare? Auguri. Forse, anche qui, il consiglio di Gentiloni (chiedere ai Cinque stelle un disinnesco della portata esplosiva del taglio in cambio del governo giallorosso) era solo saggezza. Lo hanno bollato come un sabotaggio. Ri-auguri.

L’esigenza di mettere in sicurezza l’economia

di Stefano Quintarelli

 

Sono un informatico, deputato nella scorsa legislatura nelle fila di Scelta civica. E’ stata un’esperienza estremamente istruttiva. L’idea del “palazzo” che si ha da fuori è fuorviata, complice una comunicazione ipersemplificata tesa a smuovere emozioni più che ragionamenti.

 

Tra i tanti insegnamenti che ne ho tratto, due sono quelli principali. Il primo è che tutto è sempre più complicato. Ogni questione, vista da lontano, magari dopo un giro di “formazione” su Wikipedia, ha una soluzione semplice. Un plebiscito su Facebook lo può confermare e quindi, se non viene fatta, significa che c’è qualche “potere forte” che vi si oppone (archetipo che smuove emozioni). Il corollario è che è facile sbraitare dall’opposizione, difficile costruire stando in maggioranza. Assai difficile costruire cose che reggano una valutazione positiva al trascorrere del tempo. Ogni costruzione necessita di un compromesso e ogni compromesso scontenta le parti. Da qui il celebre aforisma di Juncker “[noi politici] sappiamo tutti cosa fare, ma non sappiamo come farci rieleggere una volta fatto quello che è necessario”. Il corollario del corollario è che è facile farsi rieleggere facendo poco o nulla, basta addossare colpe ad altri.

 

Il secondo insegnamento è che non basta avere ragione, serve che te la diano (copyright on. Coppola). E’ la parte più difficile. La democrazia non è aristocrazia (nel significato originario, il governo dei più meritevoli) e anche laddove vi sia un grande esperto di un tema, che sappia chiaramente quale sia il compromesso migliore possibile per affrontare una questione, il grande lavoro che dovrà svolgere sarà di scoprire quali siano le persone chiave, operare per convincerle costruendo reti di consenso e, soprattutto, trovare lo spazio-tempo per affrontare l’argomento nei modi e tempi appropriati. Nell’equazione rientrano stakeholder, media, colleghi di partito e della maggioranza, strutture ministeriali, uffici legislativi di Camera, Senato, governo e – talvolta – commissione, tutti sempre con tempi ultraframmentati e discontinui, potenzialmente con interessi divergenti. Questo è il grosso del lavoro, e anche per un parlamentare esperto, portare a casa un risultato è una maratona a ostacoli. Proprio perché al momento del voto non ci sono esperti e “uno vale uno”. La democrazia è una cosa assai difficile: è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre (W. Churchill).

 

Strutture di partito, corpi intermedi ed élite, hanno tradizionalmente svolto un ruolo di selezione di persone, elaborazione di pensiero (top-down e bottom-up) e costruzione di consenso. Il Movimento 5 stelle ha portato in evidenza che la digitalizzazione, consentendo di prescindere dalla fisicità, sostanzialmente annullando tempi e costi, ha decostruito l’operatività delle strutture intermedie per cui è necessario inventare nuove forme di organizzazione ed espressione. Ciò non è stato loro evidente finché erano all’opposizione ma le cose – per molti di loro – sono cambiate passando alla maggioranza, dove hanno toccato con mano il fatto che tutto è sempre più complicato e non basta avere ragione, serve che te la diano. In questo percorso di maturazione, l’ideologia originaria (figlia della visione semplificata di chi stava al di fuori dei palazzi) era della sostituibilità del Parlamento con il voto diretto online. Oggi risulta chiaro che ciò non sia attuabile e, non sconfessando il messaggio originario, da molti mesi la sua leadership ha però avviato un percorso di maturazione spostando il focus alla organizzazione online delle modalità di partecipazione.

 

Il Partito democratico è stato travolto dalla trasformazione digitale come ogni incumbent, minato persino nella sua sostenibilità economica, con poco brain-share dedicabile (anche in ragione degli impegni di governo) e ancor meno risorse. La digitalizzazione forza i partiti tradizionali a dover aggiornare – con il supporto della tecnologia – la cultura di gestione interna, di presenza territoriale, di strutturazione e di rapporto con i corpi intermedi, di ascolto, mediazione e sintesi. Il prossimo governo, che nasce dall’esigenza di mettere in sicurezza l’economia mitigando gli impatti della crisi economica in avvicinamento, porta con sé l’opportunità di mettere a contatto due gruppi dalle posizioni altrimenti inconciliabili, consentendo loro di contaminarsi per cultura politica ed esperienze organizzative. Auspicabilmente in modo costruttivo.

Una possibile discontinuità nei linguaggi

di Gianluca Comin

 

La vera sfida della nuova alleanza Pd-M5s è trasformare il “governo di necessità” in un “governo di visione”, capace di convincere i diversi segmenti dell’opinione pubblica che non si tratta di un matrimonio di mero interesse, ma di un progetto destinato a durare almeno qualche anno e in grado di offrire una ricetta condivisa per l’Italia. La “visione” del paese sui grandi temi che interessano i cittadini è l’ingrediente principale del consenso a lungo termine, più delle mance elargite a quella o a quell’altra categoria. Le due forze di maggioranza possono dunque aumentare il consenso fra le proprie basi elettorali impostando le priorità del governo su alcuni punti forti in comune, come l’Agenda Verde e le politiche sociali, a partire dal ruolo dei giovani nella società. Il rischio – da non sottovalutare – è che una escalation verso la radicalizzazione dei messaggi possa allontanare una parte dell’elettorato, come i ceti produttivi del Nord, che si ritroverebbero rappresentati unicamente dalla Lega. Sarà quindi fondamentale la ricerca di un equilibrio tra i due alleati.

 

Un secondo aspetto di interesse è la possibilità di marcare una discontinuità anche nei linguaggi, offrendo a un’opinione pubblica stanca dei litigi del governo gialloverde un diverso clima di collaborazione, caratterizzato da una rassicurante normalizzazione del dibattito politico e dell’agenda internazionale ed europea. Ovviamente ciascuna delle due forze ha spazi di manovra diversi. Il Pd entra nella compagine di governo con la possibilità di riaprire partite difficili, come quella per le elezioni in Emilia-Romagna. Il M5s, invece, può recuperare la centralità che i numeri in Parlamento gli attribuiscono e che l’alleanza con il Carroccio aveva in parte oscurato. Il pericolo principale è quello di alienarsi la simpatia degli elettori più orientati a destra. La soluzione non passa per una riproposizione di messaggi cari alla Lega, ma va cercata enfatizzando l’affidabilità del Movimento come fattore stabilizzante per l’economia e lo sviluppo del paese. Per la Lega l’occasione è di costruire una destra alternativa, ancora maggioritaria nel paese.

Il rischio dell’ostilità verso crescita e mercato

di Alberto Irace

 

Una crescita economica al di sotto del 2 per cento contempla il raddoppio del reddito dei lavoratori in oltre 40 anni. Chi lavora, invece, deve poter vedere possibile la sua realizzazione come essere umano nei tempi della vita umana. Occorre quindi crescere almeno al 3 per cento all’anno. Non c’è equità e redistribuzione senza nuova ricchezza.

 

L’ostilità verso lo sviluppo economico e le regole del mercato è dunque il maggiore rischio per il paese. Questo male ha radici antiche anche a sinistra. Penso allo storico scontro con Craxi sulla scala mobile e al referendum che ne seguì nel 1984 in cui la sinistra pose il paese dinnanzi al dilemma della redistribuzione senza crescita. Il rischio maggiore che corre il paese è che queste tradizioni si saldino al governo oggi. Speriamo invece nella crescita.

 

Si concentri l’azione su pochi obiettivi compatibili col debito pubblico. Le reti innanzitutto. Quelle dell’energia e quelle della comunicazione: due ingredienti essenziali dello sviluppo economico dei nostri tempi su cui costruire. Si può realizzare un rinnovamento delle reti di distribuzione elettrica insieme al cablaggio capace di far muovere l’energia pulita facendola prevalere nel tempo su quella fossile e inducendo comportamenti virtuosi nei consumatori rendendoli partecipi. Il governo si affidi ai concessionari come Enel per realizzarlo. Si tratta di grandi imprese, sottoposte a un controllo pubblico indipendente efficace, con capacità tecniche, risorse manageriali e accesso al capitale a buon mercato per poterlo fare senza gravare sul debito pubblico.

 

La burocrazia del paese e le sue mille moltiplicazioni incrociate sono un peso inutile e insostenibile. Ma davvero è impossibile automatizzare l’aggiornamento delle banche dati dei cittadini e imprese senza costringerli, ogni volta, a riprodurre dati e certificati già in possesso delle mille articolazioni dello Stato. La riduzione dei costi di transazione darebbe un contributo importante alla competitività del paese.

 

Resto scettico sulle possibilità riformiste della nuova compagine: temo che sarà dominata dal risentimento e dal velleitarismo della redistribuzione più che dall’ansia di tenere a bada la voracità e l’ingerenza dello Stato e favorire la crescita. Spero in cuor mio che i fatti mi smentiscano e che invece il paese si incammini su un sentiero di sviluppo economico e di nuova ricchezza.

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