Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Grillismo in gabbia. Perché il BisConte segna un nuovo commissariamento del M5s

Valerio Valentini

Di Maio agli Esteri, Fraccaro a Chigi. Il premier tenta di istituzionalizzare il M5s e concede al Pd i portafogli importanti. La svolta è sulle infrastrutture

Roma. Mentre assiste con aria distaccata alla formazione di un governo assai diverso da quello che sperava di vedere nascere venti giorni fa, quando contribuiva ad uccidere l’esecutivo precedente, Massimiliano Romeo sorrido sardonico: “E’ vero, sono stato l’ambasciatore che ha recapitato a Di Maio l’offerta di fare il premier, su mandato di Salvini”, confessa il capogruppo del Carroccio al Senato. “Ma l’ho fatto per provare a salvare Luigi: che ora si sta accorgendo del fatto che il vero traditore è Giuseppe Conte, che sta mettendo nel sacco anche lui”, dice Romeo. E nel dirlo ammicca all’architettura austera di Palazzo Chigi, che sta proprio alle sue spalle, e dove per tutta la mattinata si prolunga una trattativa che vede il leader del M5s lottare col “suo” premier non tanto per ottenere qualcosa di più, di quel ministero degli Esteri di cui poi, come un Alfano qualsiasi, dovrà comunque accontentarsi, ma per salvare quantomeno la faccia di fronte ai suoi colonnelli.

 

Alla fine, Di Maio riesce a garantire al suo fedelissimo, Riccardo Fraccaro, quella promozione a sottosegretario alla presidenza del Consiglio per cui da tempo questi smaniava, e che però ora lo vede affiancare un premier non proprio entusiasta della sua compagnia (Conte avrebbe preferito un tecnico come Roberto Chieppa), quasi più col ruolo del controllore che non del collaboratore. Ma la sensazione generale è che in definitiva sarà proprio Fraccaro a ritrovarsi invischiato nella trama di relazioni di burocrati e consulenti di Palazzo Chigi, assai più in sintonia col fu “avvocato del popolo” che non con Di Maio. Il quale, seppure in modo non clamoroso, perde di fatto il controllo diretto della compagine governativa a cinque stelle, e deve rinunciare a quasi tutti i ministeri economici.

 

La prova più evidente di questo cambio di equilibri interni sta forse nel fatto che, a sostituire Fraccaro ai Rapporti col Parlamento, non sarà il capogruppo alla Camera Francesco D’Uva, ma il questore Federico D’Incà. Un grillino atipico: formalmente di rito fichiano, ma alieno ai velleitarismi dell’ortodossia a cinque stelle, è stato l’unico parlamentare del M5s a schierarsi sin dall’inizio a favore delle Olimpiadi invernali 2026, e tra i pochi – lui che è veneto e bellunese – a predicare il verbo autonomista, seppur con juicio. La telefonata che gli squaderna il suo destino ministeriale la riceve dopo pranzo, D’Incà, a ridosso della salita di Conte al Colle. Poco prima, era ancora in Transatlantico a scambiare osservazioni coi colleghi del Pd, che molto lo apprezzano proprio in quanto “volto umano del grillismo” (copyright di Pino Pisicchio). Ed era lì a parlare proprio di ciò che più da vicino lo riguarderà, e cioè delle dinamiche parlamentari: la riduzione del numero di deputati e senatori da approvare in fretta, sì, ma nel contesto di un più generale riassetto costituzionale. Ivi compresa la legge elettorale.

 

“Ho letto che Prodi auspica un ritorno al maggioritario”, diceva D’Incà. “Ma a mio avviso lui non ha la percezione di quanto la comunicazione e i social abbiano inquinato la politica. Una soluzione maggioritaria oggi premierebbe gli estremismi. Al contrario, un proporzionale puro faciliterebbe una dialettica più costruttiva tra i partiti”. Musica, ovviamente, per le orecchie dei democratici, specie quelli renziani. Che hanno apprezzato del resto anche un’altra promozione, quella di Fabiana Dadone alla Pubblica amministrazione. Riservata e discreta, la deputata cuneese vanta ottimi rapporti col Pd: “Da relatrice sulla riforma costituzionale di Fraccaro”, spiega il giurista Stefano Ceccanti, “ha compiuto il massimo degli sforzi di dialogo e mediazione”. Molto amica di Dibba, per via di un ex collaboratore parlamentare condiviso nella scorsa legislatura e che ora è diventato il di lei compagno, la Dadone ha spesso mosso critica alla “mancanza di meritocrazia” nel M5s. E alcune, di recente, le ha indirizzate proprio a Mattia Fantinati, che della Pa era sottosegretario. Formazione di sinistra, ha avuto i suoi discreti attriti coi fichiani di stretta osservanza quando uno di loro, Giuseppe Brescia, le scippò – con non troppo garbo, pare – la presidenza della commissione Affari costituzionali. Fu ricompensata con la nomina a responsabile dello “Scudo della rete”, uno degli ineffabili apparati dell’associazione Rousseau, e poi, più di recente, con l’elezione tra i probiviri.

 

Al Mise andrà invece Stefano Patuanelli. Ingegnere edile triestino, tra i pochi nel M5s a poter vantare un reddito ante politica assai maggiore di quello percepito da parlamentare (“Nel 2009 guadagnavo dieci volte tanto”, scherzava giorni fa coi suoi colleghi, ricordando la sua esperienza di socio nello Studio Mads di Via Imbriani, nel capoluogo friulano), il capogruppo al Senato gode di stima trasversale, a Palazzo Madama (“Quello è uno bravo”, dice di lui perfino Matteo Renzi, che pure ieri ha espresso le sue riserve per la composizione generale dell’esecutivo: “Non è proprio il dream team”). A Di Maio, che all’indomani della sconfitta alle Europee gli chiese un parere sul da farsi, lui fu franco: “Il paese ha scelto la destra, e noi non siamo la destra. Prendiamone atto e tiriamoci indietro”. Poi le cose andarono diversamente, e Patuanelli s’adeguò. Ora spetterà a lui gestire l’unico vero portafoglio economico che il M5s è riuscito a strappare. “E non a caso lo abbiamo dato a lui”, dicono nel Pd, dove comunque puntano su candidature prestigiose per blindare la delega all’Energia (si parla, tra gli altri, del bolognese Gianluca Benamati), con cui provare peraltro anche a vincere l’ostruzionismo proverbiale di Sergio Costa, confermato al ministero dell’Ambiente.

 

Nello spacchettamento dell’ex superministero dimaiano (“Altra scommessa persa di Luigi”, malignano i deputati grillini), il Lavoro tocca alla siciliana Nunzia Catalfo, che andrà a Via Veneto a presidiare i cantieri del reddito di cittadinanza e del salario minimo, proposte di cui è la prima ideologa nel M5s. Lorenzo Fioramonti rappresenta, anch’egli, l’anima progressista del M5s. E il suo posto da ministro dell’Istruzione – lui che al M5s ci era arrivato per volere di Giorgio Sorial, fedelissimo di Di Maio, come potenziale ministro dello Sviluppo nel 2018 – se l’è guadagnato in virtù del suo mai celato malessere per l’appiattimento del capo grillino sulle posizioni di Matteo Salvini. Ancora meno compromesso col grillismo delle origini è invece il profilo di Paola Pisano, assessore all’Innovazione – stessa delega assegnatale nel nuovo esecutivo – della giunta di Chiara Appendino (dove s’è distinta per il caos ingenerato negli uffici dell’anagrafe, oltreché per le trovate mediatiche come gli spettacoli di droni luminosi in occasione della Festa di San Giovanni). Nella squadra della sindaca prima, e nelle grazie di Di Maio poi, entra anche grazie alla sua vicinanza all’alta società sabauda, essendo moglie di Enrico Toledo, proprietario dei pennarelli “Carioca”. Ottiene infine le deleghe dello Sport e dei Giovani Vincenzo Spadafora, una vita nella Margherita prima di diventare braccio destro di Di Maio e sommo tessitore della trama giallorossa: quella che, per ora, ha fatto nascere il governo, e un domani, chissà, un nuovo centrosinistra.

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