Matteo Salvini (foto LaPresse)

La gioia immensa di non morire nell'Italia di Salvini

Adriano Sofri

I costi del governo non sono superiori ai benefici ma per non inverare amare previsioni serve intelligenza, non furbizia

Chi sappia lucidamente prevedere il male che porta il futuro è esposto a un rischio, in un angolo della sua coscienza: di augurarsi che avvenga, perché la vanità è una rivale insidiosa della responsabilità. Parlo per esperienza, perché temo il peggio. C’è un solo modo per limitare la tentazione della vanità: attenersi a ciò che è già avvenuto. Pessimismo e ottimismo, infatti, prima che al futuro, che una dose di incertezza la conserva comunque, riguardano il passato e il presente, il giudizio su ciò che si è già compiuto. Per esempio, la divergenza sentita, se non angosciosa, fra chi, nella parte democratica, ha auspicato che si andasse al voto e chi ha augurato la costituzione del governo, si illudeva, o simulava, di fondarsi sulle conseguenze future, e insomma sulla previsione che la destra incanaglita uscisse rafforzata o indebolita dal rinvio delle elezioni. In realtà la divergenza si fondava su un giudizio e un sentimento, diversi quanto ai colpi che il governo della Lega e dei 5 stelle avevano già inferto alle istituzioni e allo spirito pubblico.

 

In altri termini, che prezzo si era disposti a pagare per liberarsi – provvisoriamente o no – di Matteo Salvini e della sua fanatica malvagità. Luigi Ferraioli, giurista e democratico rigoroso, ha espresso in modo esemplare, spogliato di riserve e autodifese, la sua convinzione sulla posta in palio (sul Manifesto del 25 agosto): “Il dovere delle forze democratiche è dar vita a un governo… di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento – esibito, ostentato – contro i più deboli e indifesi. Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale. Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari. Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito”. In sostanza: nessun prezzo sarebbe troppo alto rispetto all’occasione di fermare una marcia sul potere che solo l’insipienza ottusa del suo primattore ha offerto a un’opposizione rannicchiata.

 

Man mano che una scelta così motivata, seppure con ogni esitazione, procedeva, molte voci, dalla parte democratica, si sono alzate a scongiurare quello che appariva loro come un ripudio di sé e un’abdicazione alla coraggiosa e cavalleresca disfida elettorale sulla quale la democrazia si fonda. Coincidendo, in quest’ultimo argomento, con le maschie rivendicazioni di Salvini sulla dignità per la quale si possono sacrificare sette ministeri: per la dignità si può sacrificare pressoché tutto, ma lui aveva piuttosto indegnamente mirato a raddoppiarli, i suoi ministeri, e a impadronirsi per intero di un potere che già impiegava senza riconoscergli limitazioni.

 

Le elezioni hanno una loro scadenza, salvo che non esista una maggioranza parlamentare: tutti l’hanno ripetuto, ma troppi hanno inclinato a cedere alla sfida del bullo che ne imponeva il tempo sulla base di un sondaggio e di una ubriachezza da spiaggia. Ho ascoltato e guardato con attenzione alcuni degli intransigenti nemici della formazione del governo deplorare con le vene del collo gonfie la vergogna di parole che rinnegavano parole di un anno, un mese, una settimana prima. Quanto si sarebbero gonfiate le vene di chi tenesse l’arringa contraria, evocando le persone tenute sul ponte di un bastimento malfamato a vomitare e pregare e interrogare sé e il proprio dio sulla ragione della loro umiliazione? Bene, il governo si è fatto: il costo è superiore al beneficio (uso la neolingua) già realizzato, di mettere intanto da parte l’estrema destra, e a quello eventuale, di riparare a un po’ del malfatto e magari fare qualcosa di buono? Non so, ho una posizione troppo faziosa perché sia condivisa: ho temuto di morire nell’Italia di Salvini – lasciatemelo dire così, all’ingrosso – e ora posso sperare che non avvenga. Non sono egoista, dico morire, ma intendo lasciare alle mie nipoti, e ai figli e nipoti di tutti, quell’Italia. Ecco, mi chiedo ora se coloro i quali hanno fatto quel conto minimizzatore sul governo Lega-5 stelle, e avanzato quella persuasione drastica sulle conseguenze del governo 5 stelle-Pd, che sia destinato a moltiplicare la forza e il seguito della brutta destra, non si lascino prendere dal piacere intimo di vedere confermate le loro previsioni, di avere avuto ragione. E di dare più o meno volontariamente una mano all’inveramento delle amare previsioni.

 

Su che cosa si può contare, in cambio? Per cominciare, su una valutazione di quello che è già successo. C’è, nel mio giudizio, un inciampo colossale, che è la figura di Luigi Di Maio: la cui inettitudine sesquipedale mi pare la cosa più inspiegabile che le maree lunatiche del nostro tempo abbiano portato a galla, e di cui nei giorni scorsi si è fatta conoscere una sconfinata meschinità. Ho cercato di frequentare il mondo quanto ho potuto, soprattutto il mondo più minacciato e spesso minaccioso, e l’idea di questo ministro degli Esteri mi è inconcepibile: non si tratta di sapere le capitali, si imparano, o l’inglese, si imparicchia, si tratta di sentire il mondo, auscultarlo, mettere un orecchio sul suo campo di battaglia. Non riesco a leggere un pensiero sulla faccia di questo Capo politico, l’antitassista del mare. Ma forse nella società d’oggi gli Esteri sono un modo di spingere un po’ più in là un ingombro. Dopotutto, siamo in tempo di pace, si dicono i cuorcontenti.

 

Bene: il governo ha molte persone nuove, molti giovani, poche donne – al solito. Ha un numero significativo di persone che hanno rinunziato alla “poltrona”. Orlando si è chiamato fuori, ed è uno in gamba. Altrettanto Delrio. Franceschini ha proposto di rinunciare alle vicepresidenze. Cuperlo e Provenzano – uno è restato fuori, l’altro è entrato – avevano rinunciato alle candidature in Parlamento nelle scorse elezioni politiche. Ci saranno altri esempi che non conosco. Le poltrone sono posti da cui fare qualcosa di buono, qualcosa in cui si crede, se si crede in qualcosa. Vediamo. Renzi, per esempio. Qualcuno lo considera come la minaccia più incombente sulla durata e la confidenza del governo. E’ possibile. Non so una volta per tutte se Renzi sia capace di fare un buon uso di se stesso. Nell’azione politica si può mirare a fare da sé: quasi sempre va male, andò male a lui Renzi, è appena andata male a Salvini e si suoi pieni poteri. A volte riesce, e allora va malissimo per tutti. Un buon politico – un buon principe, stavo per dire – non è quello che scommette su tutto o niente, è quello che riesce a far fare agli altri quello che ritiene giusto in sé e anche conveniente per sé.

 

Renzi è appena riuscito a far fare un governo – non importa che lui lo pensasse “istituzionale” e a tempo, legato all’aumento dell’Iva e simili, quelle erano condizioni minime per rendere appetibile l’offerta – ad avversari e nemici ostili o recalcitranti, se non altro perché non erano riusciti nemmeno a immaginarlo. Quando l’hanno immaginato, alcuni vi si sono rassegnati per dovere d’ufficio e di sopravvivenza, altri vi hanno aderito prendendoci gusto: così Zingaretti, credo. Ecco un vero successo. Se Renzi facesse davvero un suo partito, mostrerebbe che i colpi che gli riescono sono più furbi che intelligenti. Oltretutto, è il miglior oratore nel Parlamento di oggi, posizione che in un regime tornato parlamentare ha un peso incomparabile.

 

C’è Grillo. E’ vero che è stato decisivo, penso. In lui la cosa suona falsa, almeno al 70 per cento. Lo sa, e conclude in falsetto, perché non sia il pubblico a smascherarlo: “Sono esausto”. Tuttavia prova a emulare, o parodiare, la profezia. Le persone hanno una nostalgia di profezia, non la trovano e riparano nel surrogato, l’insulto, lo scherno, la bava alla bocca. Un segretario di partito non dev’essere profetico, lo fu Berlinguer all’ultimo e confessò così la consumazione della fede comunista, riscattata dal modo toccante della sua morte. Nemmeno il Papa è più profetico, perché è affabile, dice cose esemplari, su chi è straniero a chi, sul soccorso al pianeta, ma dice anche: “Per me è un onore che gli americani mi attacchino”. Anche Ratzinger era affabile, sia pure più a distanza, teologia e babbucce rosse. Profetico fu Giovanni Paolo II, ma c’era bisogno del comunismo reale. Con Putin non si può, bisogna essere razionali, decenti, buoni chimici. Zingaretti fa bene a essere normale, a riservarsi l’appello alla gentilezza e al ripristino di sentimenti civili. Sarebbe incauto da parte sua alzare la voce per proclamare che questa alleanza e questo governo sono un’occasione storica, epocale. Grillo l’ha gridato, si è rivolto ai giovani del Pd, è un guitto e ha fatto bene. E’ reduce anche lui da un lungo purgatorio in cui la profezia, il delirio, era subordinato al vaffanculo, il precursore di Salvini. I giovani qualcosa del genere se la troveranno da sé, già la trovano nella musica dentro le orecchie, che dice cose e ne silenzia altre. I giovani devono pur accorgersi delle strade di Hong Kong. Dove la “grande vittoria” probabilmente annuncia l’orrenda repressione, e i giovani di turno avranno il loro specchio, la loro Tiananmen, la loro Praga.

 

E poi ci sono, come dicono i cronisti di calcio, “gli episodi”. L’ottuso Salvini del Papeete è stato un episodio. Che abbia deciso di una partita, del campionato o di una intera coppa europea, dipende da tutti, ora. C’è un inizio, insperato, pregiudicato. Come tutti gli inizi, dopo il Primo Giorno.

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