No al suicidio del Pd
Occhio: il ritorno al proporzionale e la scissione rischiano di uccidere l’unico partito argine al populismo
Al direttore - A quanto parrebbe di capire, c’è il rischio concreto che dopo il suicidio di Salvini si debba assistere a un altro suicidio, quello del Pd. Non sapremmo come altro definire il “combinato disposto” del quale si vocifera (speriamo senza fondamento) di scissione del partito e ritorno al proporzionale: due gesti inconsulti, tra i quali è difficile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto. Se in altre parole sia l’annunciato ritorno al proporzionale l’incentivo (preterintenzionale?) alla scissione, o se viceversa sia la scissione (consensuale?) il movente del ritorno al proporzionale. Saranno gli sviluppi, a quanto si sente dire imminenti, della vicenda, a chiarire questo aspetto, peraltro non decisivo.
Quel che è decisivo è che, al contrario di quello (provvidenziale) di Salvini, questo secondo suicidio sarebbe letale per il paese. All’Italia verrebbe infatti a mancare il pilastro solido di un grande partito popolare e democratico, europeista e riformista, in grado di trainare, con pazienza e fermezza, l’alleato populista verso l’area dell’affidabilità, rispetto ai canoni essenziali della democrazia liberale, della politica economica e della collocazione internazionale. Il sospiro di sollievo che i mercati (cioè in definitiva i risparmiatori) avevano appena finito di trarre, dopo il dissolversi dello spettro giallo-verde della crisi del debito italiano e della conseguente uscita dell’Italia dall’euro, finirebbe per trasformarsi in una smorfia di delusione, frustrazione, preoccupazione, con le prevedibili conseguenze finanziarie, economiche e geopolitiche del caso. A quel punto gli scenari possibili sarebbero due: o questa insostituibile funzione, genuinamente “democristiana”, di inclusione e rassicurazione, verrebbe esercitata direttamente dal M5s, attraverso il consolidamento politico della leadership istituzionale di Conte, o non verrebbe esercitata da nessuno e allora dovremmo presto rivedere il giudizio sul presunto suicidio di Salvini. Nessuno con la testa sul collo consiglierebbe di andare a vedere quale dei due scenari abbia maggiori possibilità di verificarsi.
Sia il ritorno al proporzionale sia la scissione del Pd vengono presentati come la mossa obbligata, per far fronte all’emergenza democratica rappresentata da Salvini e dai suoi alleati sovranisti. A sostegno di questa tesi, si cita il grande precedente della Prima Repubblica, segnata dalla “conventio ad excludendum” nei riguardi del Pci e dalla legge elettorale proporzionale. Un paragone suggestivo, dal quale tuttavia, per amor di tesi, si rimuovono alcuni dettagli non proprio insignificanti. Il primo: a differenza della Lega e dei suoi alleati sovranisti, il Pci indubbiamente subì, ma altrettanto indubbiamente accettò, la “conventio ad excludendum”, figlia dell’accordo di Yalta. E in quel contesto, la legge elettorale proporzionale non fu lo strumento per escludere il Pci, ma quello per includerlo. Si pensa di fare la stessa cosa con la Lega? Escluderla dal governo, ma includerla nel cosiddetto “arco costituzionale” e nel “governo parlamentare”? Il paragone non sembra reggere. Secondo dettaglio: il principale strumento di contenimento del Pci, nel disegno degasperiano, non fu la legge proporzionale, che egli voleva superare già nel 1953, non a caso scontrandosi col Pci che invece la difese con le unghie e coi denti, ma l’unità politica dei cattolici nella Dc, insieme ad una raffinata strategia delle alleanze. Se si volesse imparare qualcosa da De Gasperi, bisognerebbe avere a cuore l’unità dei riformisti nel Pd (altro che scissione...), congiunta con una strategia di alleanze dinamica e inclusiva.
Terzo dettaglio: se già nel 1953, in piena guerra fredda, De Gasperi aveva tentato di superare, o quanto meno correggere significativamente, il proporzionale, era perché allo sguardo “lungo” del grande statista trentino non sfuggivano i costi, in prospettiva insopportabili per il Paese, di quel sistema politico-istituzionale. Un sistema, lo hanno ricordato nei giorni scorsi Romano Prodi e Walter Veltroni, che ci ha dato la nota, cronica instabilità di governo, ma anche e soprattutto il consociativismo parlamentare, la ricerca del consenso attraverso l’uso più spregiudicato di quel formidabile ammortizzatore politico, prima ancora che sociale, che è stata l’espansione abnorme della spesa pubblica corrente. Su questo punto, ossia sul legame strutturale tra politiche redistributive finanziate in deficit e legge elettorale proporzionale, Nino Andreatta ha scritto parole (almeno per noi) definitive.
Quarto dettaglio: il deficit-spending, tipico dei sistemi proporzionali e pluripartitici, è una via che in passato fu sbagliata, ma oggi è semplicemente impercorribile per un paese con la finanza pubblica come la nostra. Come ha dimostrato il fallimento del governo giallo-verde, espressione della coalizione dei due populismi, non ci sono scorciatoie. O l’alleanza giallo-rossa saprà dimostrarsi capace di fare sintesi tra la rappresentanza populista del disagio sociale e la risposta riformista, al tempo stesso italiana ed europea, o l’alleanza stessa è destinata a fallire, esattamente come quella che l’ha preceduta.
Quinto e ultimo dettaglio: ai fini del successo, in termini sia di governo che di consenso, dell’alleanza giallo-rossa, è dunque essenziale che si affermi, in questa decisiva area politica, una linea ed una leadership riformista “a vocazione maggioritaria”, che non significa e non ha mai voluto significare pretesa di autosufficienza. Ritorno al proporzionale e scissione del Pd sono un ostacolo invalicabile per questo obiettivo e un assist formidabile al movimento promosso da Grillo. Anche perché, sul terreno proporzionalistico, come dimostrano gli eventi clamorosi di questa estate, nessuno meglio del M5S è in grado di attuare la politica dei due forni, che in questo sistema è la risorsa strategica fondamentale.