La vita è Bellanova
Abito, monaco, parole e romanzo di formazione di un ministro ex bracciante, dai campi a D’Alema a Renzi. Colori di una svolta
Pattinare sui tappeti? Mai. L’ha detto lei, il neoministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Pattinare sui tappeti, cioè non rischiare, tirare a campare, lasciare tutto tranquillo e tutto melmoso. Sembra un consiglio di vita, invece era un consiglio politico, lanciato dal palco di una vecchia Leopolda a chi, in Italia – così diceva Bellanova – non rischiando ha pattinato sui tappeti al punto da “lasciare il conto da pagare” alle generazioni future. Era l’autunno del 2016, tutto doveva ancora succedere (vedi il referendum costituzionale che ha segnato l’inizio della fine del governo Renzi), e Teresa Bellanova, con piglio allegramente marziale, si presentava agli astanti come una renziana atipica: già sostenitrice di Gianni Cuperlo, anni prima, alle primarie Pd, già sostenitrice di Pierluigi Bersani a cui, come ha ricordato il Post, non ha però mandato a dire, a un certo punto, che il suo eloquio a volte poteva sembrare per così dire lontano dalla realtà: “Il combinato disposto?!? Ma parla come mangi!”. E si capisce che più di tanto non scalfiscono la combattiva esponente del nuovo governo rossogiallo le critiche giunte via social network, in questi giorni, specie quelle che vanno a colpire lei per via dell’ormai celeberrimo abito blu a balze, vero e proprio specchio dell’anima del neo ministro il giorno del giuramento (mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze, ha detto Bellanova per rispondere agli odiatori del web, a cui, a mo’ di schiaffo morale, il giorno successivo ha mostrato con orgoglio divertito un’altra mise gialla a pois neri).
“Mi sentivo blu elettrica e a balze”, ha risposto a chi, sul web, ha criticato la sua mise il giorno del giuramento
L’ha ripetuto al Tg2 e a Lilli Gruber su La7: non mi faccio ferire, però mi irrito perché l’Italia ha altri problemi (“se una persona si iscrive a Miss Italia, è giusto che venga valutata anche per il suo fisico, se accetta di diventare ministro vorrebbe però essere valutata per questo”, è stata la frase di Bellanova diventata instantaneamente cult).
Rabbia del web ha voluto che anche il curriculum del neo ministro finisse sotto accusa: Bellanova infatti non ha mai nascosto di non aver potuto proseguire gli studi oltre la terza media. E qui la realtà sembra indietreggiare davanti a una storia che, non fosse vera, potrebbe essere stata scritta da uno sceneggiatore, da quanto pare perfetta, oggi, ex post, la chiusura del cerchio: il ministro dell’Agricoltura appena nominato, infatti, pugliese di Ceglie Messapica, a quattordici anni ha cominciato a lavorare nei campi come bracciante, e ha visto poi anche morire alcune compagne, ai tempi in cui i pulmini dei caporali, prima dell’alba, venivano riempiti bel oltre la capienza.
Si poteva anche morire di fatica, ha raccontato Bellanova, che oltre a essere stata bracciante-ragazzina è stata ragazzina-sindacalista, e poi, appena maggiorenne, sindacalista già esperta e minacciata dai caporali medesimi con tanto di armi, all’interno del suo ufficio. Ed è anche per questo che, non soltanto durante la Leopolda 2016, già più volte parlamentare, già sottosegretario al Mise nel governo Renzi e poi viceministro al ministero dell’Economia nel governo Gentiloni, Bellanova ha fatto più volte pubblico elogio dell’ex segretario rottamatore, a lei inizialmente non congeniale ma che poi l’aveva ascoltata e scelta al momento di mettere in cantiere misure drastiche per la lotta al caporalato, dopo la morte di una donna nelle campagne del Sud.
Quando si pensava dovesse sfidare Zingaretti, e quando a Zingaretti ha detto: “Chiedo troppo se chiedo cosa diciamo?”
E oggi, quando il Corriere della Sera le chiede lumi sulle sue future mosse in caso di scissione renziana, Bellanova dice che parlerà quando ci saranno fatti nuovi, e non prima, e pare anche questa un po’ la quadratura del cerchio per una che, con quel passato che pareva fatto apposta per incorniciare l’allure operaia di un esponente della sinistra-sinistra, ha più volte difeso la sua identità in evoluzione di “persona di sinistra” che però non necessariamente sta dove la sinistra-sinistra si aspetta che stia: “Ma come si può pensare di mettere in discussione un grande progetto come il Pd per fare un Pci in miniatura?”, ha detto Bellanova a Repubblica quando, al momento di massima tensione tra renziani e non renziani, ci fu chi le diede di traditrice. “Io ho preso a quattordici anni la tessera del Pci”, diceva la futura ministra, “ho fatto la bracciante agricola e poi la sindacalista, e penso sia avvilente che quelli che sono stati i miei dirigenti vengano a spiegarmi che cos’è la sinistra pensando che con qualche evocazione risolvono i problemi… non è che uno si riunisce in un teatro una mattina e si decide chi è e chi non è di sinistra…si, sono di sinistra e sto con Renzi. La sinistra sono anche io, la mia storia e le migliaia di militanti che nel Pd vogliono restare con fierezza”. E oggi, quando le chiedono se si senta più leale verso Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che si pensava a un certo punto lei dovesse sfidare nella corsa alla segreteria, o verso l’ex segretario Matteo Renzi, Bellanova risponde solo: “Ne discuteremo, da qui alla Leopolda verrano fatte delle valutazioni”. Ai posteri la sentenza, e però intanto il ministro rivendica per Renzi il merito di aver spinto il Pd nella direzione di un “nuovo governo” invece che “dei nuovi manifesti elettorali”.
Per la scienza, contro gli stregoni (vedi caso Xylella), per il libero scambio Italia-Canada, e prima per il Jobs Act
A vederla – con l’abito bluette come con l’abito a pois come con il caftano fiorato – Teresa Bellanova mantiene quello che dice descrivendosi: “Amo la vita e amo i colori”. E dal curriculum imperfetto forse nasce la sua forza: non che Bellanova sia “orgogliosa di non avere un titolo di studio”, e anzi sugli schermi di “Otto e mezzo” ha ribadito la necessità di sapere per poter fare: “Non deve passare il messaggio che non averlo è indifferente. Io non ho avuto l’opportunità di proseguire la scuola ma ho studiato tanto, ho cercato di riempire tutti gli spazi vuoti, sapendo che avevo delle lacune in più”. E a suo figlio e ai giovani militanti del partito ha sempre detto “più studi e più puoi…sono stata durissima quando qualcuno, per l’impegno politico, rischiava di abbandonare le aule”. Non dimentico da dove vengo, dice il ministro che oggi si trova a dover gestire dossier complicati di nome xylella e Ceta (l’accordo di libero scambio Italia-Canada che fa già litigare sottotraccia Pd e M5s).
Scanso equivoci, e nonostante i soliti attacchi social, il neo ministro non ha atteso neanche un giorno per dichiarare la propria fede nella scienza alla faccia degli “stregoni”, a proposito del batterio che minaccia gli alberi, al pari della fede nel commercio, e pazienza se c’è chi la vorrebbe, visti i trascorsi sindacalisti, meridionalisti e popolari, su posizioni vetero-antiscientiste e quasi quasi da decrescita felice come quelle sognata un tempo dai nuovi alleati. Macché: è dall’inverno del 2018 che, in terra di Puglia, Bellanova si scontra con chi, sulla xylella, dentro e fuori dal web, ha costruito castelli di bufale e superstizioni. Ma in terra di Puglia il ministro, sempre in quell’inverno del 2018, si è trovata nel bel mezzo della tragedia shakesperiana nazionale del primo vero scontro elettorale tra Pd e trasfughi ex Pd, tanto più che il suo collegio era lo stesso di Massimo D’Alema nonché della ex ministra grillina Barbara Lezzi (ironia della sorte vuole che oggi D’Alema non soltanto plauda alla nuova alleanza governativa Pd-M5s, ma ne rivendichi in qualche modo il sostegno preventivo: “Il M5s, che aveva vinto le elezioni ma non era autosufficiente in Parlamento, aveva individuato nell’alleanza col Pd lo sbocco naturale di quell’impasse. Quella prospettiva si era arenata di fronte alla scelta sbagliata del Pd”, ha detto infatti l’ex premier al Corriere della Sera perché Renzi e renziani intendessero). Shakesperiano fu anche lo scontro locale, in quell’inverno di un anno e mezzo fa, ché proprio D’Alema era stato kingmaker di Bellanova nel 2006, quando per sua decisione fu candidata (poi eletta) alle elezioni politiche. Da allora il futuro ministro è stato non soltanto riconfermato in Parlamento, ma anche scelto come membro della commissione di saggi che dovevano scrivere lo statuto del Pd allora nascituro. Partire con D’Alema per ritrovarselo a lato, per così dire, del governo in culla, mentre la renziana Maria Elena Boschi dice, a proposito della futuribile scissione: “Ora siamo qui, ma se tornano D’Alema e Bersani…”. Ma anche: partire difendendo l’articolo 18 e arrivare a difendere il Jobs Act senza temere gli insulti di coloro che vedono in questo l’ombra dell’alto tradimento: sempre sul palco della Leopolda, infatti, Bellanova ha motivato la sua decisione con un “i tempi stanno cambiando”: non era la canzone di Bob Dylan ma la constatazione che l’ancoraggio al passato in campo contrattuale non sempre giova al lavoratore, e che “flessibile” può non farsi bestemmia per un’ex sindacalista e bracciante come lei.
Quando sfidava le pistole dei caporali, e quando sfida chi le rinfaccia di avere soltanto la terza media al grido di “studiate”
Ma non è questo l’unico romanzo della vita di Bellanova. L’altro si chiama Abdellah El Motassime, interprete magrebino che il futuro ministro ha conosciuto nientemeno che nella romantica Casablanca di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, durante una non romantica missione della Cgil in Marocco. Incontro fulminante e “lost in translation” dove però lui, che le faceva da traduttore, è diventato presto suo marito e padre di Alessandro, il figlio quasi trentenne che il giorno del giuramento ha incuriosito gli astanti accompagnando la madre al Colle. “Sono una ragazza di 60 anni”, è il motto del ministro, il cui corollario, dai tempi dell’avvento del precedente e da lei osteggiato governo Conte-Salvini-Di Maio è: “Ho la libertà di poter dire quello che sento dentro: quello che mi appassiona è partecipare alla costruzione di un luogo dove si rispettano le regole”. Regole non rispettate nella Puglia anni Settanta in cui Bellanova si era trovata a fare blocchi stradali e autogestioni contro i caporali, anche a costo di sfidare le pistole. E “quello che sente dentro” l’ha portata anche a dire parole dirette al neo segretario pd Zingaretti lo scorso aprile, dalle pagine di Democratica: “Mi sarei aspettata, desidero troppo? che all’indomani della tua elezione ci si mettesse immediatamente al lavoro sulla costruzione di una proposta del Pd, forte e autonoma, piuttosto che iniziare dalla fine, ovvero nomi e apparentamenti. Che primo momento di quel nuovo corso, che tu hai sostenuto e che ti è stato affidato, fosse l’avvio di una grande discussione pubblica, al nostro interno e chiamando al confronto chiunque avesse voglia e desiderio di rimboccarsi le maniche mettendosi in gioco apertamente, su temi e questioni che un grande partito come il nostro non può ignorare per tenere fortemente connessa l’opposizione parlamentare all’opposizione politica nel Paese e richiamare a noi parti di elettorato disaffezionato e disancorato…Su Mezzogiorno e autonomia rafforzata che diciamo? E sul lavoro, è sufficiente continuare ad avanzare proposte sul salario minimo o dobbiamo aprire un confronto anche sulle politiche industriali a livello europeo e sull’armonizzazione contrattuale e salariale? Che diciamo sulla antica questione che o si importano merci o si importano braccia e che noi qui, adesso, se non siamo capaci di una politica che rimetta in discussione le ragioni di scambio ci condanniamo a umanitarismi di facciata e ferocie di sostanza? Qual è la nostra politica sulle migrazioni? Con chi facciamo alleanze, chi sono le nostre controparti? A quali pezzi di Italia stiamo parlando, con quali pezzi di Europa ci accingiamo a costruire piattaforme programmatiche per modificare limiti e storture che le destre utilizzano come comodo cavallo di Troia?”. E certo oggi è un altro giorno, al governo c’è il Pd, quelle domande restano in parte nell’aria e Zingaretti e Bellanova devono andare formalmente di pari passo, almeno fino a che il Pd resterà uno e bino, con Zingaretti e Renzi sotto lo stesso tetto.