No. Il combinato scissione-proporzionale può uccidere il Pd
Chi rinuncia alla ricchezza della propria cultura politica, e agli strumenti che le danno forza, prima o poi ne paga il prezzo
Il vero costo della scelta obbligata di dar vita al governo giallorosso non è nel rimpallo delle reciproche incoerenze, nel gioco d’archivio dei #senzadime lanciati contro i #maicolPD, nella fatica di far funzionare una maggioranza nata dalla doverosa risposta alla sfida eversiva di Salvini. No, il costo più autentico di questa operazione rischia di essere la scomparsa di una forza riformatrice non minoritaria, di radicamento popolare e di impianto culturale pluralistico. Ovvero la scomparsa del Partito democratico per come l’abbiamo conosciuto in questo decennio. Inutile girarci intorno: il “combinato disposto” tra ritorno al proporzionale e scissione interna fa scattare sopra la testa del Pd una ghigliottina che non può essere fermata con autorevoli mozioni degli affetti né con appelli sentimentali all’unità, ma che dovrebbe essere letta e contrastata (se davvero lo si vuole) con gli strumenti della politica.
Per questo colpisce la leggerezza con cui si teorizza in questi giorni la cosiddetta “scissione consensuale”, anche per voce di dirigenti di comprovata qualità ed esperienza. Colpisce ad esempio l’argomentazione di Goffredo Bettini, secondo il quale non sarebbe “uno scandalo” se le “istanze più riformiste e liberali” si accomodassero fuori dal Pd insieme a Renzi. Dietro la cortesia dell’invito a lasciare l’appartamento condiviso si legge l’auspicio di un partito culturalmente normalizzato, rasserenato dal non dover più rappresentare nel proprio bagaglio identitario e programmatico quella vocazione alla modernizzazione economica e istituzionale dell’Italia su cui era nata la scommessa originaria del Pd. Un partito che evidentemente si immagina impegnato a presidiare un mitologico “campo storico della sinistra”, in una duplice chiave di conservazione dell’esistente e di risposta solo difensiva alla minaccia del populismo. Così come vi si legge una ricostruzione molto fragile del “renzismo”. Perché Renzi non è un Calenda qualsiasi e – al netto delle caricature, dei personalismi e delle ragioni della durissima sconfitta del 2018 – la storia della sua traiettoria politica e di governo non può essere confusa con un’effimera “invasione degli Hyksos” priva di ragioni e radici, ma dev’essere letta come una stagione nella quale la capacità di leadership e mobilitazione ha permesso per la prima volta in Italia all’agenda tradizionalmente minoritaria della sinistra liberale di incrociare i valori del personalismo cattolico e dei nuovi diritti sociali e civili e di farsi per questa via maggioranza di popolo. Davvero vogliamo espungere quell’agenda, quei valori e quella capacità di mobilitazione dagli strumenti a disposizione del Pd? Davvero vogliamo illuderci che sia possibile tornare come se niente fosse al 2007, alla vigilia della fondazione del Pd, a una nuova divisione dei compiti tra “socialdemocratici” e “popolari” ma questa volta in assenza dei soggetti collettivi su cui poggiavano quelle etichette? Come se dodici anni di storia italiana non fossero mai trascorsi, come se dimenticassimo che DS e Margherita avevano dentro di sé una solidità di culture politiche, agende programmatiche e vitalità territoriale che nasceva da decenni di storia e che oggi non può essere reinventata in laboratorio.
In questo stesso senso colpisce anche la facilità con cui Ettore Rosato e Ivan Scalfarotto, tra gli altri, immaginano che una separazione di gruppi parlamentari possa tradursi nella nascita di partiti autenticamente radicati nella società italiana e non solo nei legami tra i loro dirigenti politici. Da un lato la loro ricostruzione appare subalterna a quelle caricature del renzismo prodotte e coltivate proprio da chi in questi anni vi si è opposto con più forza, dipingendolo come un oggetto minaccioso e alieno alla sinistra italiana e ai suoi valori. Dall’altro perché quello che servirebbe oggi all’Italia prima ancora che al Pd, proprio nel quadro dell’alleanza di emergenza con il Movimento 5 Stelle, è esattamente il contrario dell’operazione che si annuncia. Non tanto il trasloco e l’inevitabile ridimensionamento dell’agenda liberale e riformista, ma il suo rafforzamento dentro un unico soggetto politico che sia anche per questo capace di contenere e indirizzare (egemonizzandola?) la spinta massimalista che continuerà a prodursi da parte M5s. Perché sarà anche vero che gli elettorati di Pd e M5s si sono mescolati, ma il timone politico Cinque Stelle rimane saldamente nelle mani di chi persegue una strategia di svuotamento sostanziale della democrazia rappresentativa, indebolimento dello Stato di diritto, affermazione del populismo giudiziario, indifferenza al conflitto d’interessi, ritorno alla stagione della spesa pubblica improduttiva e di tutto quanto ha alimentato una contrapposizione con il Pd che non era fondata sul folklore dei social ma su visioni molto distanti del bene pubblico e dell’interesse nazionale. Non è affatto escluso che queste visioni possano convivere – e anche bene – dentro l’esperienza del nuovo governo: al contrario, nell’interesse del paese dobbiamo augurarcelo e lavorare affinché accada. Ma perché la convivenza sia utile al futuro dell’Italia, e non solo a rispondere all’emergenza, serve che quell’agenda liberale e riformista non sia “privatizzata” e ricondotta alla condizione orgogliosamente minoritaria nella quale si è quasi sempre trovata nella storia della sinistra italiana. E serve dunque che il Pd conservi quella pluralità di culture, sensibilità e radicamenti che ne hanno permesso la sopravvivenza dentro la crisi più grave della sinistra europea: perché chi rinuncia alla ricchezza della propria cultura politica, e agli strumenti che le danno forza, prima o poi ne paga il prezzo.
L’impegno per la sopravvivenza del Pd non è dunque nostalgia di un passato che non tornerà, ma preoccupazione per il contributo che il Pd potrà o non potrà dare al futuro dell’Italia. Una preoccupazione che si aggrava di fronte a quello che sembra un piano inclinato verso il ritorno al proporzionale. Se infatti – come ha scritto Francesco Clementi – “i sistemi elettorali incarnano una cultura politica e la rappresentanza che determinano è innanzitutto l’idea di paese che si ha o che si vorrebbe avere”, la resurrezione del proporzionale rischia di aggravare il ridimensionamento culturale e politico del Partito democratico. Perché sarà difficile evitare che ne esca rafforzata la tentazione a rinchiudersi dentro una rappresentazione angusta e sostanzialmente corporativa della sinistra, consegnando stabilmente ai Cinque Stelle e al loro disinvolto uso delle alleanze il controllo della strategia politica di lungo periodo. Così com’è facile immaginare che un quadro proporzionale ma privo dei partiti forti della Prima Repubblica aprirebbe la strada a dinamiche interne dominate dalla tattica e a navigazioni parlamentari ispirate al più corsaro degli stili, con l’effetto di indebolire ancora di più le istituzioni della democrazia rappresentativa di fronte ad una narrazione antipolitica che si avvia ad essere potenziata dal nuovo quadro di governo. Anche per questo il Partito democratico dovrebbe riflettere con molta attenzione – e senza dare niente per scontato – sull’opportunità, i tempi e le modalità di una svolta in senso proporzionale mentre la destra rilancia sul campo la propria vocazione maggioritaria. E dovrebbe farlo proprio ora che ha l’urgenza di legittimare una nuova maggioranza politica di fronte all’opinione pubblica, con tutta la cautela e la credibilità necessarie. Mentre il paese rischia di conoscere una recrudescenza dell’identitarismo settario e una crescita dell’astensionismo.
P.s. Ovviamente chi scrive resterà nel Pd, anche nel malaugurato caso di una separazione dei gruppi parlamentari
Andrea Romano è deputato del Pd