È il post bipolarismo, bellezza
Renzi, il Pd mai nato, la fine del pensiero egemone. Parla Rutelli
Roma. “La scissione di Renzi? Ma è il post bipolarismo, bellezza!”. E Francesco Rutelli, fondatore del Pd e ancora prima della Margherita, ex sindaco di Roma, leader dell’Ulivo nel 2001, sostiene che si sia chiusa un’èra: “Si è chiuso un ciclo cominciato venticinque anni fa con la discesa in campo di Berlusconi”. Il centrosinistra da una parte, il centrodestra dall’altra. La storia della Seconda Repubblica. “La nascita di questo nuovo governo, come d’altra parte anche del precedente, è un fatto strategico. Segna il ritorno delle coalizioni. I nemici del giorno prima, Lega e M5s, sono chiamati doverosamente a fare una coalizione. Poi, a seguire, altri due nemici e antagonisti, il Pd e il M5s, sono obbligati a formare una coalizione anche loro. Questo avviene in tutte le democrazie. In Spagna si torna a votare perché Sànchez non trova un accordo parlamentare con Ciudadanos e Podemos. Nel Benelux ci sono governi di coalizione. In Germania va avanti così da quindici anni…”. Quindi questa situazione non è l’effetto del Rosatellum, la legge elettorale? “Questa situazione è dovuta al fatto che nel 2013 il M5s è diventato il primo partito. Il bipolarismo è saltato. E allora o si riforma la Costituzione in senso presidenzialista come dice Salvini – solo così può funzionare il maggioritario, come in Francia – oppure si fanno le coalizioni”.
E allora la scissione del Pd non lo impressiona affatto. E non solo perché Francesco Rutelli è da tempo ampiamente lontano dai democratici (“tentai di costruire il terzo polo, lasciai con amicizia il Pd e scrissi un libriccino che s’intitolava ‘Lettera a un partito mai nato’”). Ma questa di Renzi è una scissione senza pathos, senza strepiti, senza lacrime, senza dramma né tensione, senza nemmeno un ufficio politico convocato d’urgenza. Forse non s’era mai vista una scissione così, fredda come la fusione nucleare. “Il Pd ha avuto tre segretari eletti dalle primarie, attraverso processi coinvolgenti e di vasta partecipazione. Il primo, Veltroni, è rimasto poco più di un anno, poi si è dimesso. Il secondo, Bersani, ha lasciato il partito. E adesso anche il terzo, Renzi, ha lasciato il partito per fondarne un altro. Sono fatti considerevoli. No?”.
Altroché. Un partito mai nato, dunque? “In questa nuova fase, che io chiamo come ho detto ‘post bipolare’, il Pd resta un attore imprescindibile di qualunque coalizione. Ma per diventare partito egemone dovrebbe avere un pensiero egemone nella società. E invece vedo nel Pd la fatica di trovare sia un pensiero sia una vera direzione politica. Si è tentato il ritorno alle origini diessine, ed è andata male. Si è tentata la strada carismatica, ed è andata male… Vede, la fisionomia dei 5 Stelle è chiara. Quella di Salvini pure. Nel caso del Pd, come si fa a ricondurre questa esperienza a una sintesi? Qual è il pensiero? Qual è il progetto? Oggi forse loro pensano che la sintesi possa essere: ‘Siamo contro Salvini’. Ma non funziona. Non basta. Già era un limite quando lo facevamo con Berlusconi, cui pure venticinque anni fa ci si contrapponeva con una modalità di organizzazione collettiva che adesso non c’è più. Il bipolarismo è finito, e non rinasce sotto il segno dell’antisalvinismo. Le cose non si ripetono mai uguali”. Chissà.
Dario Franceschini sostiene che il nuovo bipolarismo sia l’alleanza tra M5s e Pd contro la destra. “Per adesso c’è una coalizione di governo. Stiamo ai fatti. A quello che esiste. I 5 Stelle non stanno dentro una traiettoria astratta, non sono una anomalia, non sono soltanto rabbia e vaffa: sono l’espressione di un autentico malessere dei ceti medi. Sono diventati il primo partito. E sono diventati, di fatto, un partito di centro”. Di centro? “Nel senso che hanno indiscutibilmente occupato lo spazio centrale della società. Il ceto medio sommerso dalla crisi economica”.
Va bene. Ma se Rutelli ha ragione, se lo schema è di coalizione, allora Renzi ha fatto bene a uscire dal Pd. E’ così: ha fatto bene? “Io dico che in un sistema post bipolare un partito si tiene unito con la coesione ideale e politica. Perché se costruisci un partito carismatico, come sta per fare Renzi, verifichi un paradosso: il leader è condannato a vincere. Se non vince, finisce tutto. Quindi devi costruire un partito con un pensiero e un’idea della società. La sindrome dell’immediatismo, in politica, ha lasciato sul campo la tradizione del centrosinistra. La disintermediazione sistemica ha d’altra parte interpreti più efficaci altrove”. A destra, Salvini per esempio? “Certo”.
Dicono che Renzi progetti di rappresentare i ceti produttivi. “In Italia storicamente i ceti produttivi sono stati legati al potere più che a delle intraprese in contropiede… Detto questo, Renzi si muove nella logica post bipolare, ripeto. Noi continuiamo a immaginare che possa esistere un partito nel centrosinistra capace di raccogliere il 40 per cento dei voti. Non è così. Non è più così. E’ cambiata la società. Ci sono le alleanze di governo. E lo schema di Renzi sta in queste regole di gioco”.
O forse invece Renzi presume di poter svuotare il Pd? Ripersonalizzare tutto? “Non lo so. Certo questa scissione è una operazione molto sua, molto personale, appunto, e con i limiti che ben conosciamo. Perché, come dicevo prima, il partito del leader carismatico vede il leader condannato a vincere”. E Renzi può rilanciarsi, può tornare fresco e vivo (“Italia Viva” è il nome del suo nuovo partito) come un tempo? “Renzi ha un peccato originale. Quello di aver annunciato il ritiro dalla politica se avesse perso il referendum. Una cosa enorme, dal punto di vista sostanziale. Non lo obbligava nessuno a dirlo. Ricordo la battuta di un autorevolissimo dirigente del Pd che aveva appena ascoltato persino Padoan dire che si sarebbe anche lui ritirato come la Boschi e tutti gli altri: ‘Siamo forse diventati la setta del reverendo Moon?’”. Una battuta quasi dalemiana.
E un partito degli imprenditori, delle partite Iva, del ceto produttivo, può esistere? “Diciamo che il perimetro dei grandi numeri non appartiene al cosiddetto partito del pil”. Nella Prima Repubblica c’era il Partito repubblicano, però. C’era Ugo La Malfa. “Un partito attento ai diritti di libertà, laico, europeista, moderno, che sdoganò la parola patria, e che io votai una volta perché candidava dei radicali…”. Ma? “Ma stava stabilmente tra l’1 e il 3 per cento. Una volta prese il 5 per cento, con Spadolini”. Come Renzi? “Eh”.