Davide Casaleggio, presidente dell'associazione Rousseau (foto LaPresse)

La "libertà dei moderni" di Constant e il bluff della democrazia diretta

Rocco Todero

Dal rifiuto delle competenze alle crepe nella gestione della piattaforma Rousseau (citofonare Garante della Privacy). La lettera di Casaleggio al Corriere mostra tutte le distorsioni della sua idea di democrazia

Martedì 17 settembre il Corriere della Sera ha pubblicato una lettera di Davide Casaleggio con la quale il patron della piattaforma Rousseau ha tentato di perorare la causa della democrazia diretta con l’artificio retorico di mettere in evidenza 7 presunti paradossi della democrazia rappresentativa. L’erede del fondatore del movimento cinque stelle ha preso le mosse da quello che secondo lui sarebbe “il paradosso del secondo incomodo” e ha cercato di spiegare come “Il rappresentato dovrebbe decidere sempre, salvo quando lo può fare solo il suo rappresentante.” Del resto, ha chiosato Casaleggio, anche gli azionisti di un’impresa scelgono di delegare le decisioni al management solo per beneficiare dell’efficienza decisionale e non certo perché i proprietari sarebbero meno competenti degli amministratori.

 

Con due striminzite righe, prive di supporto argomentativo e di dati empirici, il giovane stratega della democrazia della rete ha cestinato la più macroscopica delle evidenze che si possano registrare nel mondo del business; quella che rappresenta da decenni la divisione dei ruoli fra capitalisti/azionisti e management/amministratori come frutto dell’alta specializzazione tecnica necessaria a guidare qualsiasi tipo d’azienda che voglia navigare nel mare tempestoso del mercato. Casaleggio pensa, invece, che la famiglia Agnelli/Elkann, solo per fare un esempio, abbia messo sulla plancia di comando manager qualificati (il povero Marchionne su tutti) solo perché gli azionisti, pur capaci alla stessa stregua del management, preferirebbero passare il tempo tra una vacanza e l’altra. Panzane. Il secondo paradosso sarebbe quello del “luddista con lo smartphone”. Perché, si chiede Casaleggio, possiamo utilizzare la tecnologia per compiere azioni prima impensabili e adesso avremmo da ridire sulla modalità del voto on line? Non sarà forse, rincara il nostro, un riflesso condizionato della paura del futuro?

 

Evidentemente gli sfugge come il cuore della questione della democrazia in rete non sia tanto la legittimità del voto on line (che già alcune democrazie avanzate utilizzano) quanto la possibilità di fare affidamento su una procedura trasparente e controllata da organi indipendenti che consenta di escludere anche il solo rischio di manipolazioni e risultati artefatti (citofonare Garante della Privacy italiano). Il punto non è quello di cadere nella stessa trappola di chi aveva paura del treno a vapore nel XIX secolo, come ritiene Casaleggio, quanto quello d’assicurare che l’esercizio della democrazia permanga dentro un perimetro di massima trasparenza. E, ci sia consentito, non è il caso d’impartire lezioni di futuro della democrazia proprio dalle aule della piattaforma Rousseau. La lettere al Corriere continua con il canto delle lodi della democrazia partecipata, quell’istituzione che sarebbe fondata sui movimenti, che rappresenterebbe una valida alternativa al sistema dei partiti, quest’ultimi chiusi su loro stessi, i cui iscritti oramai sarebbero ridotti al lumicino e che imporrebbero una quota d’iscrizione per partecipare alla vita democratica. I movimenti, invece, si sa, sono aperti, ci si incontra gratuitamente e al loro interno le decisioni, altrove assunte da appena cinque persone, sono sostituite dalla partecipazione di migliaia d’aderenti.

 

Insomma, il paradosso della democrazia rappresentativa sarebbero le poche decine di euro che servono per iscriversi ad un partito politico, il cui valore fondante è sancito dalla Costituzione repubblicana, e non già i contratti privati che dalle parti dei cinque stelle prevedono il vincolo di mandato fra l’eletto e la dirigenza del movimento stesso e l’obbligo di versare una parte dell’indennità parlamentare ad un soggetto privato, pena l’espulsione dal movimento aperto e democratico.

 

Col quarto paradosso, quello del “decisore muto”, Casaleggio finalmente affronta la vera questione che ruota attorno alla democrazia diretta. Non sarebbero mai gli elettori a sbagliare quando votano, ma sarebbero i rappresentanti a non avere spiegato a dovere le proprie ragioni, a non avere dedicato tempo a sufficienza a convincere tutti della bontà di alcune tesi. Basterebbe riflettere, sollecita ancora il nostro, sui casi della Brexit e dell’elezione di Trump per comprendere come non ci saremmo “impegnati a sufficienza a coinvolgere le persone nel percorso di scelta, quando era opportuno farlo”. A Casaleggio forse manca un pò di senso pratico della vita e della democrazia, senza il quale non si può nemmeno essere validi teorici dell’una e dell’altra.

 

Magari sarebbe il caso di riflettere sul fatto che milioni di persone vivono una vita che non è fatta prevalentemente di politica, di letture di giornali, di studio delle questioni più complesse che riguardano l’agone pubblico. Milioni d’individui dedicano la maggior parte del loro tempo al lavoro, alla famiglia, ai problemi sentimentali, agli hobby, e non hanno voglia di comprendere, né competenze adeguate per farlo, l’intero scibile universale che Casaleggio vorrebbe pazientemente spiegare loro, prima di chiamarli all’esercizio del voto diretto su centinaia di deliberazioni dal contenuto diverso ed eterogeneo. Già Benjamin Constant nel suo “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” (libro che Casaleggio farebbe bene a studiare diligentemente) mise in guardia da una visione politica totalizzante, quella secondo la quale il tempo della vita dovrebbe essere impegnato prevalentemente nello studio assiduo di tutte le questioni pubbliche. Questa possibilità era concessa solo agli antichi, i quali potevano passare molto tempo nell’Agorà perché altri, gli schiavi, provvedevano al soddisfacimento dei loro bisogni fondamentali.

 

La democrazia rappresentativa è un regime giuridico resosi necessario per tutelare la libertà dell’individuo e per consentire lo sviluppo economico e tecnologico, grazie all’impegno profuso da milioni d’esseri umani che non sono distolti dallo studio, che dovrebbero essere serio e approfondito, di centinaia di dossier sulle questioni relative alle deliberazioni pubbliche. Del resto, come diceva Popper, la democrazia non è il governo del popolo, ma quel sistema di governo grazie al quale il popolo può cacciare, senza spargimento di sangue, i governanti che non gradisce più. Il resto della lettera di Casaleggio è una mera rappresentazione dei paradossi del suo pensiero e non già di quelli della democrazia, come lui vorrebbe. Basti pensare alla petizione di principio secondo la quale “l’intelligenza di una comunità deciderebbe sempre il meglio per il proprio futuro” o all’astrusità del “paradosso del diverso che unisce”. Rimane il fondato dubbio, invece, che l’argomento della democrazia diretta serva unicamente a solleticare il narcisismo di milioni d’elettori e, così facendo, ad accattivarsene la simpatia (grazie ad un subdolo gioco di psicologia sociale) ancor prima che qualsiasi argomentazione di merito venga rappresentata sul campo. E’ l’occhiolino complice strizzato al popolo per veicolare, in realtà, un messaggio che esalta le qualità e le capacità di qualsiasi individuo, purché la scelta deliberativa alla fine sia quella voluta e incoraggiata dal pifferaio magico. Ritenti, Casaleggio.