Un vuoto chiamato alternativa
Gli anti sovranisti hanno respinto l’assalto salviniano. Ma cosa si può fare per dare alla cultura riformista una stampella diversa da quella populista? La grande scomposizione e le domande giuste per capire come trasformare la scissione di Renzi in un’opportunità
La decisione di Matteo Renzi di uscire dal Partito democratico per fondare un movimento (si chiamerà Italia Viva, senza forza) alternativo tanto al fronte che si trova oggi all’opposizione (il sovranismo nazionalista) quanto al fronte che si trova oggi al governo (il grillismo democratico) è parte di un fenomeno politico con cui si stanno ritrovando a fare i conti diverse democrazie europee, attraversate da una nuova divisione del mondo all’interno del quale le differenze tra pensiero conservatore e pensiero progressista sono infinitamente più sottili rispetto alle differenze che esistono tra chi scommette sull’apertura e chi scommette sulla chiusura.
In molti, in queste ore, si sono chiesti quanto la scelta di Renzi sia viziata dal narcisismo dell’ex premier, dal suo opportunismo tattico, dalla sua recidiva incoerenza, dalla sua incapacità di essere un semplice gregario, dalla spasmodica volontà di esercitare a tutti i costi il potere. In pochi però si sono chiesti se la molla che ha dato all’ex segretario la spinta giusta per rompere definitivamente le righe con il suo partito sia o no un tema sul quale valga la pena investire. E il punto in fondo è tutto qui: ma gli attuali schieramenti politici sono in grado oppure no di rispondere alla richiesta degli elettori di presentare una nuova offerta politica capace di essere alternativa sia al populismo d’opposizione che a quello di governo?
Ci sono molte ragioni che possono aver suggerito a Matteo Renzi di premere il pulsante avvio della grande scomposizione italiana (pulsante che a vario titolo vorrebbero premere anche altri soggetti della vita pubblica del nostro paese: Urbano Cairo, Mara Carfagna, Carlo Calenda) ma la ragione che più delle altre merita di essere messa a fuoco riguarda la capacità dei partiti politici di rappresentare quella fetta di elettorato che oggi fatica a essere rappresentata: quella composta dai nemici della chiusura.
Matteo Salvini, meglio di chiunque altro, è certamente il pivot di un’Italia indignata che cerca nella chiusura le risposte giuste per governare la globalizzazione. Ma al contrario di quanto succede nello spazio presidiato dall’ex Truce non si può dire che il fronte politico che dovrebbe dedicarsi a rappresentare le istanze dell’apertura sia sufficientemente forte da essere in prospettiva un’alternativa credibile. Non si può essere gagliardamente alternativi al sovranismo senza essere fieramente europeisti, ma non si può essere energicamente antinazionalisti senza difendere alcuni pilastri non negoziabili della politica dell’apertura: la difesa di una giustizia non inquinata dal virus del giustizialismo, la difesa di un mercato del lavoro in cui difendere la flessibilità significa difendere l’occupazione, la difesa del principio che tagliare le tasse anche a chi guadagna di più non significa farla pagare chi guadagna di meno, la difesa di un’idea di Europa all’interno della quale l’Europa non sia trattata come se fosse solo un grande bancomat, la difesa di un ambientalismo non cialtrone capace di fare della difesa dell’ambiente una difesa più del progresso che dello status quo, la difesa di una visione economica all’interno della quale ogni punto di debito pubblico in più è un peso che la politica sceglie di mettere sulle spalle dei nostri figli.
La scissione di Matteo Renzi ha molte ragioni, molte delle quali sbagliate come abbiamo scritto ieri (siamo sicuri che le idee di Renzi abbiano più peso fuori dal Pd che dentro al Pd?). Ma se c’è una ragione nobile della separazione più o meno consensuale tra il Pd e Renzi (nel Pd qualcuno dovrebbe forse chiedere chi ha lavorato per fare di tutto per rendere incompatibile Renzi con la cultura del Pd) è la voglia di provare a colmare un vuoto e intercettare un pezzo d’Italia potenzialmente maggioritario. Un’Italia terrorizzata dal sovranismo leghista (e avere un partito del pil al nord capace di fare concorrenza alla Lega per il Pd potrebbe essere più un regalo che un problema) e spaventata dalla possibilità che l’unione tra Pd e M5s sia qualcosa in più di un’unione costruita in nome dello stato di necessità.
Goffredo Bettini, in un intervento pubblicato sull’Huffington Post, ieri ha detto che l’uscita di Renzi dal Pd è un’opportunità perché è chiarificatrice e ridà al Pd la possibilità di esercitare il suo spirito maggioritario. Da un certo punto di vista Bettini ha ragione: se il Pd non ha intenzione di tradire la sua storia, la sua identità, il senso della sua missione, farà di tutto per dimostrare a Renzi che creare un partito che difende il pil, che difende il garantismo, che difende l’apertura, che difende la globalizzazione, che difende la flessibilità, che difende le politiche di abbattimento delle tasse, è una mossa non solo sbagliata ma semplicemente inutile, perché quel partito esiste già e si chiama Pd. Viceversa, se il Pd deciderà davvero di trasformare l’alleanza con il M5s in un’alleanza strutturale da esportare in tutta Italia, la scissione di Renzi potrebbe permettere agli elettori democratici di avere una qualche speranza di non ritrovarsi con un Pd trasformato nella sesta stella del movimento cinque stelle. E se ha ragione chi dice che il tentativo di Pd e M5s di avvicinarsi alle regionali demilitarizzando i partiti sia il preludio a quello che Pd e M5s potrebbero fare nel caso di elezioni anticipate, ovvero demilitarizzare il campo di gioco e chiedere all’attuale presidente del Consiglio di guidare un’“alleanza sociale” da sperimentare non solo al governo ma anche alle urne, come ha lasciato intendere ieri il ministro Francesco Boccia in un’intervista rilasciata al nostro giornale, allora si può dire che il senso del progetto renziano, se c’è, è tutto qui: combattere per dare alla cultura riformista una stampella diversa da quella populista.