Renziani senza Renzi
Lotti ci spiega perché è rimasto nel Pd, con i suoi cinquanta parlamentari
Il frazionismo mina la credibilità in politica. Riscopriamo la vocazione maggioritaria (se necessario anche con un nuovo congresso). Semplifichiamo il sistema politico con un doppio turno o un proporzionale con soglia alta
Al direttore - Alla fine di una complessa settimana per la politica italiana e dopo la formazione dei nuovi gruppi parlamentari di Italia Viva, credo sia giusto e doveroso per me spiegare le ragioni della mia convinta scelta di rimanere nel Partito democratico.
La politica è una palestra di vita. Forse la più spietata, senza dubbio la più bella. Di ogni azione il politico risponde non solo a se stesso, ma a un’intera comunità di persone che rappresenta e che gli danno fiducia, lo sostengono, lo incoraggiano, lo criticano e che alle elezioni inevitabilmente lo giudicano. E’ la legge della democrazia, una buona legge che però può essere declinata in modi diversi: il più facile (ma il più sbagliato) è captare le pulsioni popolari, cavalcarle acriticamente e farle proprie a base di slogan che tendono a dare risposte semplici a problemi sempre più complessi. Siamo di fronte infatti al conflitto finale – già in atto – tra i fautori del ritorno a una società chiusa (il nazionalismo esasperato e il sovranismo) e chi invece immagina il futuro prossimo come una società aperta e inclusiva.
Oggi la sfida, ce lo siamo detti tante volte, si gioca tra il populismo e il riformismo, nella consapevolezza che la parte più difficile tocca a chi ritiene che le giuste istanze popolari cui la politica deve dare risposte debbano necessariamente fare i conti col principio di realtà. E questo è il compito, appunto, dei riformisti. In Italia, in questo momento storico, per me la casa dei riformisti non può essere che il Pd, l’unica forza davvero democraticamente contendibile, in cui fin dalla sua nascita si confrontano idee diverse ma sempre compatibili nella visione di un progetto comune.
Il Partito democratico non è mai stato un partito personale, e anche un leader carismatico come Matteo Renzi (e chi come me lo ha sempre sostenuto), che lo portò al massimo storico di consensi alle elezioni europee del 2014, ci ha fatto coerentemente i conti, vincendo e perdendo le primarie come accade in tutte le grandi forze politiche e traendone generosamente le conseguenze dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo. Io ho condiviso tutta l’esperienza “renziana”, da Palazzo Medici Riccardi a Palazzo Chigi, una straordinaria stagione politica che ha dato una scossa benefica a una sinistra rimasta troppo ancorata a vecchi schemi novecenteschi, a fronte di un centrodestra che la leadership di Berlusconi aveva saputo riunificare in nome di una modernità spesso apparente ma sicuramente attrattiva.
In questo senso la Leopolda, ma direi tutto il nostro lavoro, è stato un grande laboratorio politico e culturale, un’autentica fucina di idee che ha saputo trasformare l’originaria rottamazione in un manifesto riformista che ha condizionato positivamente il dibattito dentro il Pd e in tutta la politica italiana.
Io ho deciso di restare nel Pd non solo perché questa è la mia casa, ma anche per difendere e non disperdere la nostra storia, per dire con orgoglio che questi anni non possono ridursi al fallimento del 4 marzo, ma che il nostro “turbo-riformismo” ha prodotto tante leggi che hanno reso l’Italia più moderna, efficiente e giusta grazie alle unioni civili, al “Dopo di noi”, alla riforma del processo civile, al Jobs Act, all’Industria 4.0; e potrei citarne molte altre. Le ho condivise tutte, e non potrei rinnegarne nemmeno una. Ho condiviso anche la scelta, a suo modo rivoluzionaria, di aprire a un governo con i Cinque stelle per arginare sia la difficile situazione politica e sociale del nostro paese, sia la pericolosa deriva di destra, spegnendo sul nascere il megafono salviniano che annunciava i pieni poteri. Ma non mi sono mai posto la domanda sul “che fare?”.
Il luogo politico di un’autentica componente riformista è solo il Partito democratico, è qui che la nostra sfida può e deve trovare nuova linfa, donne e uomini, base e consensi per affrontare questa fase facendo crescere il partito che ora ha una missione certamente complessa. E’ dentro il Pd che dobbiamo fare la battaglia per lo sviluppo, per le infrastrutture, per un ambientalismo non ideologico e per riaffermare l’impronta garantista nei confronti delle sacche di giustizialismo giacobino che ancora purtroppo restano.
Nonostante la mia storia personale e nonostante tanti giornalisti e colleghi provino a dare letture surreali (arrivando a scomodare leggende letterarie come il cavallo di Troia o fantasticando su improbabili spie o infiltrati), mi chiedo che senso abbia avuto far nascere il nuovo governo e subito dopo uscire dal partito. Sia chiaro, io considero una nuova offerta politica un bene per la democrazia e coloro che hanno preso questa decisione sono colleghi stimati cui mi lega e sempre mi legherà un rapporto di amicizia e stima. Tuttavia, sebbene si assicuri appoggio al governo Conte 2, vedo all’orizzonte un vecchio vizio della sinistra italiana affacciarsi pericolosamente, un frazionismo nel nostro campo politico che ne mina la credibilità.
E se l’uscita di Renzi è stato un regolamento di conti per rispondere all’improvvido fuoco amico che fece fallire la riforma costituzionale, allora è stata una risposta tardiva, ma non spetta a me fare queste valutazioni. Allora qual è la spiegazione? Qualcuno ritiene possa essere stato l’impulso, comprensibile e legittimo, a contare di più al tavolo della maggioranza: non so se questo sia vero, ma temo che in tal caso possa essere un orizzonte politico limitato.
Ho letto e ascoltato, fra i “capi d’imputazione” messi in conto al Pd per giustificare la scissione, anche la cosiddetta “deriva correntizia” del partito. Su questo voglio che non ci siano fraintendimenti, anche se so di essere forse impopolare: nel Partito democratico sono confluite storie personali e politiche diverse, spesso profondamente diverse. Ebbene: io sono convinto che le correnti siano una ricchezza per rendere una vita di partito profondamente democratica. Le correnti come luogo di pensiero devono costituirsi, vivere, pensare e trovare tra loro un equilibrio di posizioni e di idee, ed essere il lievito per la crescita di un grande partito di massa. Le correnti, insomma, sono una ricchezza e non una povertà nel definire la propria identità. Credo sia un errore averne paura.
La domanda che più mi sento rivolgere in queste ore è diventata quasi ossessiva: ma come fate voi “renziani” a restare in un partito senza Renzi? Domanda comprensibile, a fronte di una situazione che in effetti assomiglia molto a un ossimoro. Ma la politica è fatta prima di tutto di idee, e poi di scelte, di comportamenti conseguenti e anche – certo – di errori. Io, l’ho già detto, non disconosco nulla del nostro passato, ma a maggior ragione rivendico il diritto di non dover rinnegare il mio futuro politico, e non sacrifico le mie convinzioni a un sodalizio sia pure profondo e duraturo. So bene lo smarrimento che in tanti stanno affrontando in queste ore, ma chiedo a tutti quelli che credono nel Pd di avere fiducia nel nostro progetto.
Tra il passato e il futuro, io ho scelto il Pd. Un partito nel quale proseguirò la mia battaglia riformista, assieme ai compagni di viaggio di Base riformista che oggi con oltre 50 parlamentari rappresenta una forte e solida forza progressista all’interno dei gruppi del Pd alla Camera e in Senato, e che si sta organizzando a livello locale in tutto il territorio nazionale. A novembre faremo il punto di questo nostro percorso con la seconda assemblea nazionale di Base riformista.
Certo, inutile fingere, con l’uscita di Matteo il partito non è più lo stesso, essendosene andato il leader che ne ha contrassegnato la storia degli ultimi anni. Nessuno potrà fingere che nulla sia avvenuto, o liquidare la questione con un tweet.
Tutte le separazioni sono laceranti, e questa non è stata certo una separazione consensuale. Non si può nemmeno nascondere che la scelta di far nascere il Conte bis sia stata anch’essa, all’inizio, molto divisiva per la maggioranza uscita dal Congresso e che oggi di fatto non c’è più: non solo perché qualcuno se n’è andato ma perché è venuta meno quella piattaforma politica di opposizione al Governo giallo-verde che ha caratterizzato il nostro ultimo dibattito congressuale. Una scelta inizialmente divisiva dicevo, anche se poi c’è stata una comune assunzione di responsabilità di tutto il partito in nome dell’interesse nazionale, in nome di un Paese che ha la necessità assoluta di recuperare credibilità in Europa e di scongiurare nuovi rischi finanziari.
Questa sfida appartiene a noi e soprattutto al segretario Zingaretti che in questi giorni ha avuto il compito difficile di mettere insieme una squadra di governo e che da domani avrà il compito ancora più difficile di indicare una strada per il futuro della nostra comunità, per chi resta convintamente dentro di essa, federazione per federazione, circolo per circolo, iscritto per iscritto.
Deve essere questa la forza di un grande partito: quella di prendere insieme le scelte più difficili. Ma il gravoso impegno di stare al governo del Paese in un momento così cruciale non può esimerci dal guardare anche dietro l’angolo, a cosa è meglio per il futuro della nostra democrazia: abbiamo accettato il taglio dei parlamentari, altrimenti non sarebbe nato il governo, ma ora abbiamo il dovere di aprire una riflessione non superficiale anche sulla nuova legge elettorale. Un partito di massa deve avere l’ambizione di recuperare l’originaria vocazione maggioritaria. Come abbiamo scritto nel Manifesto fondativo di Base riformista presentato a Montecatini nel luglio scorso il nostro assetto istituzionale ideale era e resta il maggioritario. Nelle attuali circostanze, e tenendo realisticamente conto dei vincoli derivanti dal patto di governo che abbiamo appena costruito, si può arrivare a quell’obiettivo, che comporta la semplificazione del sistema politico, con il doppio turno o con una legge proporzionale che contenga una soglia di sbarramento ragionevolmente elevata e selettiva. Due strade che hanno entrambe effetti maggioritari e stabilizzanti. Questa discussione va aperta al più presto nella direzione del partito, e nelle sedi opportune.
Quello che auspico è un confronto completo, vero e aperto. E aggiungo, infine: non ci sia timore di aprire – se necessario – una nuova fase congressuale e di gestione del partito. Perché gli eventi delle ultime settimane hanno mutato profondamente la linea e gli assetti interni del Pd. Io e tutti gli amici di Base riformista siamo pronti ad affrontare insieme a tutta la comunità del Partito democratico le sfide che abbiamo davanti a noi. E lo faremo, ne sono certo, con coerenza, con lealtà e con il gioco di squadra che ci ha sempre contraddistinto. Perché una delle cose che ho imparato in questi anni è che al passato bisogna dire grazie, ma al futuro dobbiamo dire sì.
Luca Lotti, deputato del Pd