"La scissione del Pd può avere effetti negativi sul Conte bis", dice Orlando
L'uscita di Renzi dal partito risponde "a un malessere individuale e a legittime aspirazioni individuali e collettive". La relazione del vicesegretario alla direzione nazionale
È quasi un luogo comune ripetere come questo tempo, il nostro tempo, sia in costante accelerazione. A volte sembra che la politica si ritenga immune da questo. Gli eventi dell’estate che si è appena conclusa, stanno a ricordarci che non è così.
Del resto veloce è stata l’ascesa dei populismi e dei nuovi soggetti politici che hanno stravolto il paesaggio politico italiano in pochissimo tempo.
Soltanto a luglio, in questa sede, discutevamo della costruzione dell’alternativa al governo giallo-verde a trazione salviniana.
In quella discussione, anche per i posizionamenti tattici interni che l’avevano preceduta, pesava una sostanziale rassegnazione all’egemonia di una destra che appariva come inarrestabile.
Il gruppo dirigente che ha vinto il Congresso si era dato, e ha come priorità, mantenere l’unità del partito. Per questo ogni altra via era preclusa. Come poi sono andate le cose è fatto noto. Oltre la rapidità, gli incredibili errori tattici e le pregevoli giocate, dobbiamo però rivolgere la nostra attenzione ai processi di fondo che si sono manifestati in questi eventi. Così come la crisi non è solo conseguenza del Papeete, la nuova fase che si è aperta non è figlia soltanto di un’intervista agostana.
Era leggibile, in chi avesse voluto farlo, la crescente tensione che ha progressivamente segnato i quattordici mesi del governo giallo-verde. Era la conseguenza del fallimento di un metodo di giustapposizione degli obiettivi programmatici delle due forze politiche, che cercava di ovviare al conflitto tra istanze diverse, perché diversi erano gli insediamenti e le domande sociali rappresentate dalle due forze al governo. E il conflitto è da ultimo esploso.
La distinzione del voto sulla nuova Commissione europea ha segnato un punto di rottura che abbiamo rischiato di non cogliere pienamente. Il governo è potuto nascere anche perché, in questi mesi abbiamo progressivamente riposizionato il partito. Nelle proposte programmatiche che sono diventate la base della piattaforma di governo e soprattutto nell’analisi. Va notato in particolare quest’ultimo aspetto. Nei mesi che ci hanno separato dal Congresso di marzo abbiamo dapprima superato la linea che inizialmente ci aveva portato, inerzialmente, a chiedere le dimissioni del corpo elettorale, reo di non averci votato, e poi a distinguere, sempre più nettamente, tra il fenomeno dei Cinque Stelle e la Lega di Salvini. Altrimenti oggi avremmo dovuto fare i conti con una contraddizione insormontabile e domande assai imbarazzanti.
Se le due forze non erano che la manifestazione diversa dello stesso fenomeno, così come è stato detto, autoritario e populista, perché ne sceglievamo una delle due? Qual era il criterio che ci portava ad allearci con un pezzo della destra contro l’altra?
Non è per puntiglio che sottolineo questo aspetto. Senza questa distinzione, nulla di quello che stiamo tentando sarebbe possibile. Il governo che nasce per nostra iniziativa ha una compagine rinnovata, con capacità ed esperienze in grado di affrontare le difficoltà e le domande del Paese. Sulla sua formazione hanno però pesato i riflessi di un dibattito interno nel quale la costante minaccia della scissione, arrivata poi per altre ragioni, di cui parleremo, ha impedito che si preparasse con un adeguato lavoro programmatico e teorico e un’interlocuzione all’altezza di un passaggio così delicato. Aprire poi un dibattito sull’esito della crisi, prima che questa si fosse compiutamente consumata, ha offerto ai nostri attuali alleati un indubbio vantaggio tattico, finendo per nascondere, almeno in parte di fronte all’opinione pubblica, il lascito negativo dei quattordici mesi di governo giallo-verde, e soprattutto quello sul quadrante economico e finanziario, che oggi costituisce il principale scoglio per il lavoro che attende il nuovo esecutivo. Dobbiamo essere lucidi e consapevoli nel definire la posta in gioco di questa sfida e l’impegno che in essa ci attende.
O si apre una nuova fase per la Repubblica che si rinnova e si rigenera, depotenziando le spinte antisistema e assorbendo le pulsioni populiste, o i caratteri di essa possono risultare irrimediabilmente mutati. La vicenda del Metropol non è soltanto uno spaccato inquietante, popolato da personaggi che sembrano usciti da un B movie, una vicenda peraltro che deve essere urgentemente chiarita, è anche il riflesso dell’attrazione fatale delle forze nazional populiste verso un modello estraneo alla tradizione delle democrazie liberali socialmente orientate, sorte dopo la Seconda Guerra Mondiale. Goffredo Bettini ha descritto in più occasioni, in modo a mio avviso convincente, le ragioni del successo della destra nazionalista e di Salvini. A un popolo spaesato, scosso e disorientato dalla tumultuosità dei cambiamenti, dalla profondità della crisi, che non è soltanto crisi economica, ma anche delle relazioni e dei soggetti sociali, a un popolo privato dei riferimenti e delle forme, e delle parole aggiungerei, capaci di interpretare il mondo, la destra ha proposto i riferimenti attinti alla tradizione e declinati in chiave reazionaria. La famiglia, la nazione, la religiosità, sono stati offerti come gusci in cui rinchiudersi, piuttosto che come strumenti di civilizzazione e di organizzazione delle relazioni sociali, secondo la tradizione migliore dell’umanesimo europeo.
Ma questa operazione tende a fuoriuscire, appunto, dalla tradizione delle democrazie liberali cresciute in Occidente. Cerca sponde nei dispotismi che si richiamano alla fase pre-illuministica, all’odio per la società inclusiva, multi religiosa e multi etnica, al rifiuto della laicità dello Stato. Questo è quello che bolle in pentola.
Il pericolo sembra per il momento scongiurato. Alcuni fatti hanno dato segnali chiari in questa direzione, tra tutti, la nomina del nostro presidente, Paolo Gentiloni, nella Commissione europea, al quale facciamo i migliori auguri, una postazione che fino a poche settimane fa pareva essere destinata a un sovranista. Ma non dobbiamo ignorare che la domanda di rassicurazione, l’offerta d’odio, Salvini stesso, restano potentemente in campo. Il lavoro che ci attende è quello di offrire un’altra risposta alla paura e all’inquietudine, un altro modo di rappresentare quei sentimenti profondi con i quali dobbiamo finalmente fare i conti.
Per fermare questo processo servono a poco le chiacchiere o le pretese pedagogiche, occorre dismettere il sostanziale disprezzo per il popolo così come è, o almeno, come sono larghe e, purtroppo, crescenti parti di esso. Dietro la spocchia elitista che ha segnato in modo progressivo e trasversale il campo progressista negli ultimi anni, non c’è soltanto un atteggiamento estetico, c’è la rimozione di una sconfitta dovuta all’incapacità di tenere insieme ceti subalterni e settori dinamici della società e dell’economia, in un progetto di riscatto sociale e civile e, quindi, di consolidamento della democrazia. Quello che si era realizzato pienamente nella società fordista è esploso in modo dirompente con l’impatto dell’economia globale.
Questa è la posta in gioco. E la partita si gioca nelle istituzioni e nella società, a Roma e nel territorio. L’alleanza di governo poteva essere un espediente tattico. Abbiamo voluto con determinazione che diventasse l’occasione per un progetto ambizioso e profondo.
Non nascondiamoci i rischi né le opportunità.
Il Movimento Cinque Stelle è la radiografia dei nostri limiti. La crisi della capacità inclusiva della democrazia, l’esaurirsi dei canali di partecipazione e l’indebolimento dello stato sociale, hanno spinto settori della società verso una protesta antipolitica e anti istituzionale, alimentata da una domanda seppur distorta di riconoscimento individuale e collettivo.
Questa proposta si è venata di pulsioni autoritarie, di rancore e di giustizialismo, tratti incrementati dal rapporto con la Lega.
Diciamolo, però, sono germogliati in quel corpo anche semi che avevamo custodito noi. Pensiamo, al netto del dovuto rispetto, alla perdita di senso critico per l’azione della magistratura, ai nostri scimmiottamenti delle campagne anti casta. Ma in quel movimento si manifestano anche spinte che dovrebbero stare alla base della nostra ragione d’essere. Non credo, però, sia casuale che le convergenze programmatiche più naturali, emerse nel lavoro che abbiamo fatto con Dario, si siano realizzate su due questioni essenziali per il nostro profilo politico e ideale: la lotta alla diseguaglianza e l’obiettivo della sostenibilità. Non si tratta in fondo proprio delle grandi questioni che la sinistra occidentale non ha saputo risolvere e affrontare con adeguata radicalità? Non è proprio su questi temi che si è consumata larga parte della credibilità accumulata da generazioni di riformisti? Come si può parlare di futuro e rivolgersi alle nuove generazioni senza fare i conti fino in fondo con l’evidenza della crisi ambientale che mette in questione la stessa esistenza del pianeta? Come si può affermare, in modo sacrosanto, l’universalità dei diritti dell’uomo quando milioni di persone sono gettate dalla crisi più grave che abbia mai colpito il Paese nella povertà assoluta, o confinate in una dimensione produttiva segnata da precarietà o espulse dal mondo del lavoro?
O ancora, come si può parlare credibilmente di libertà di impresa e di meritocrazia a fronte del persistere di posizioni dominanti e di un establishment immodificabile, effetto di un capitalismo relazionale come quello italiano, al quale si sono aggiunte, senza sostituirsi, le distorsioni dovute alle grandi concentrazioni economiche e finanziarie dell’economia globale?
In un’economia sempre più finanziarizzata, sono i produttori a soffrire, imprese e lavoratori, e sono la rendita e la speculazione a rafforzarsi. E a questo si aggiunga il peso di una burocrazia che se è cambiata, è cambiata troppo poco e che continua a essere una controparte e non già un alleato dell’impresa.
Ecco, fare i conti con loro, con il Movimento 5 Stelle, significa fare i conti con noi, con noi stessi e con i nostri limiti. Ma è anche un’occasione per parlare al mondo che si è rivolto a loro. Un mondo che ha iniziato a sostenere quel movimento “per dare un segnale”, certo sbagliando, ma al quale abbiamo risposto con sufficienza e talvolta con arroganza. La sottovalutazione delle crescenti disuguaglianze sociali ha aperto la strada al populismo rancoroso, alla rabbia sociale che si è espressa contro il diverso, contro lo straniero, divenuto capro espiatorio per una società che non cresce più, che invecchia e nella quale si concentra progressivamente la ricchezza. La sfida si vince, dunque, se si cambia e nel profondo. Non si tratta di inventare riposizionamenti politicistici verso il centro o verso la sinistra, qualunque cosa si intenda per questi termini, né di dare vita a qualche espediente elettoralistico. Si tratta di ripensare la nostra cultura politica, la nostra organizzazione e con questa, sospingere l’azione riformista al governo del Paese e delle autonomie locali, dove è impegnato il Partito Democratico. Sì, perché questa volta non possiamo fare l’errore, già fatto in passato, di pensare che tutta la partita si esaurisca nel perimetro delle istituzioni. Date le condizioni di partenza quest’errore, questa volta, potrebbe essere fatale.
Per la prima volta entriamo in una coalizione da junior partner, i nostri parlamentari, dopo la scissione, sono meno di un terzo di quelli dei nostri alleati e, per la prima volta, ci alleiamo con un soggetto politico che ha un rapporto tutt’altro che risolto con la democrazia rappresentativa.
Serve, quindi, una nuova cultura politica in grado di fare i conti con la radicalità delle domande imposte dai cambiamenti.
Ricostruire così un rapporto tra politica e vita, tra le nostre parole e la materialità delle condizioni e le aspirazioni ideali degli italiani. Non basta scrivere per questo un bel programma. Occorre far vivere le nostre parole d’ordine nell’azione di governo, nella comunicazione quotidiana, nelle parole di molti, utilizzando i vecchi e i nuovi mezzi di comunicazione e anche nei comportamenti individuali e collettivi, ricostruendo un sistema di coerenze, tra ciò che si dice e ciò che si fa.
Abbiamo detto che la nostra alternativa doveva fondarsi su tre parole: Europa, sostenibilità, eguaglianza. Ebbene, la nostra esperienza di governo, la nostra presenza in maggioranza, deve fondarsi sulle stesse parole e vivere ogni giorno nell’iniziativa politica in tutto il Paese.
Dobbiamo essere radicali anche nel nostro europeismo. Per due ragioni, la prima è che fuori o ai margini dell’Europa, l’Italia è perduta. Dalla politica migratoria alle politiche per la gestione del nostro enorme debito pubblico: si possono governare con successo soltanto se si rafforza il processo di integrazione. Essere europeisti ed essere patrioti per noi è una sola cosa.
La seconda ragione è che nel governo dei fenomeni che trasformano la nostra società, la dimensione della politica nazionale ha ormai le armi spuntate. Immigrazione, appunto, finanza, imprese non conoscono confini. Lo stesso vale per l’inquinamento, la criminalità organizzata o il terrorismo. Gli strumenti di cui disponiamo per governare i primi e per combattere i secondi sì. E proprio l’impotenza della politica è una delle principali ragioni del suo discredito. La sovranità che reclamano i sovranisti è ormai un simulacro. Uno spalto privilegiato dal quale osservare, disarmati, un mondo che cambia. Però proprio queste sue ragioni ci indicano anche le ragioni della frustrazione di fronte a questa Europa. Che va cambiata e subito. Perché o cambia o muore, travolta dallo scarto tra le aspettative e la realtà. Il segretario ha indicato in questi mesi in che direzione deve cambiare. Come l’Europa debba dotarsi di un fisco omogeneo, di politiche industriali e di una legislazione del lavoro comuni, di un robusto pilastro sociale, come precondizione per una civilizzazione del grande mercato che abbiamo saputo costruire e che consente all’Europa di essere una potenza economica e commerciale.
E sempre Zingaretti ha indicato come l’Unione debba dotarsi di una politica di sicurezza comune per essere un attore globale protagonista dell’assetto multipolare. Abbiamo indicato ciò che è necessario sul piano dell’integrazione delle politiche e su quello delle istituzioni, il cui drammatico deficit di efficienza e di legittimazione, rischia di essere un fin troppo facile bersaglio per i populisti. Si può contribuire in modo determinante a questi obbiettivi se l’Italia torna laddove è logico che stia. Tra i Paesi fondatori e non con la sinistra compagnia di Visegrad. La nascita del Governo Conte ha fatto già registrare questo essenziale riposizionamento che sta avendo ricadute positive per il nostro Paese e per la ripresa del processo di integrazione.
È però giusto chiedersi se tutto questo sia sufficiente. Se non sia necessario sempre più dare una base popolare e di massa alla battaglia per la riforma dell’Unione. Credo che come partito, assieme ad altri soggetti politici e sociali, dovremo dare vita a un filone di iniziative a sostegno di questo obiettivo. Non penso poi si possa parlare di politica europea senza che ci siano dei e veri e propri partiti europei. È ormai, infatti, chiaro a tutti che le vecchie famiglie politiche europee non bastano più, sia per il loro perimetro sia per la loro organizzazione troppo distante dagli elettori e dai militanti. A partire dal Pse.
Dicevo della sostenibilità. Forse dovremmo cambiare termine e chiamarla ciò che drammaticamente è: l’insieme delle politiche necessarie a salvare il pianeta. Questa è oggi la principale sfida per l’umanità. E non si tratta soltanto di lanciare dei moniti per mettere in guardia dalle conseguenze degli effetti negativi del modello di sviluppo. Dobbiamo individuare delle strategie concrete e dare una base di massa a un movimento per una transizione verso l’economia sostenibile, raccogliendo la spinta delle nuove generazioni che si stanno mobilitando. Propongo per questo che il Pd avanzi ogni mese un provvedimento che faccia fare un passo in questa direzione. Inizieremo questa settimana indicando il percorso parlamentare che porti ad una rapida approvazione di una legge contro il consumo del suolo. La transizione riguarda integralmente tutta la società e l’economia, il modo in cui si produce, il modo in cui si progetta, il modo in cui ci si muove, il modo in cui si consuma. E questo cambiamento deve essere reso giusto e desiderabile. Giusto perché non si possono scaricare i costi di esso soltanto su alcune fasce della popolazione, dei consumatori o dei produttori e si deve ripartire il suo peso, che esiste, e che non va nascosto, in modo equo per evitare che si saldi la reazione sociale con le impostazioni negazioniste e populiste. Vedi gilet gialli. E allo stesso tempo il cambiamento deve essere desiderabile. Il racconto di una transizione come regressione a una sorta di arcadia alimenta narrazioni controproducenti.
Passare a un’economia sostenibile, a un modello di sviluppo sostenibile significa costruire forme di produzione e di consumo più avanzate dove il contenuto di tecnologia e di ricerca immesso nei beni prodotti cresce, dove non si rinuncia alle acquisizioni della modernità, ma le si basa su un maggior rispetto per le compatibilità ambientali e per la constatazione elementare del fatto che esistono non infinite e non rinnovabili.
E infine la battaglia per la giustizia sociale che è oggi tutt’uno con la battaglia per la democrazia. Lo ha detto in questi giorni un insospettabile Tom Wolf commentatore dell’altrettanto insospettabile Financial Times. La lotta alle diseguaglianze deve essere il nostro tratto caratterizzante. Ma parlare di giustizia sociale, di redistribuzione del reddito oggi, non significa rivolgersi solo ai target tradizionali di questa parola d’ordine nel secolo scorso. É proprio il ceto medio, la base sociale storica dei moderati, l’ambito più colpito dalle grandi trasformazioni globali e dall’impoverimento. I professionisti, i commercianti, gli impiegati, i lavoratori del terziario che costituivano il tessuto connettivo della società e quindi della democrazia nel secolo scorso, sono oggi decimati dallo sviluppo delle nuove tecnologie e condannati a un impoverimento repentino, inatteso, una condizione molto distante dalle aspettative che li avevano visti entrare nel mondo del lavoro e nel tessuto produttivo. Sono le piccole imprese artigiane e commerciali a pagare il prezzo più alto della globalizzazione e di una concentrazione di tecnologia e di finanza che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Oggi le grandi piattaforme della rete sono in grado, scegliendosi per altro la fiscalità più vantaggiosa, di imporre salari e profitti a chi produce beni per loro. Non si tratta soltanto di mettere in moto politiche distributive, ma anche politiche pre-redistributive, attraverso un aumento dei servizi universali. Non si tratta di pensare soltanto a trasferimenti di carattere monetario, ma di ipotizzare anche trasferimenti di tecnologie, di risorse, di sapere. Per questo la battaglia per una nuova scuola e per l’accesso al sapere per tutta la vita diventa uno dei capitoli più importanti della lotta per l’eguaglianza sociale.
Gli stessi strumenti per questo obiettivo vanno ripensati. Certo, si tratta come abbiamo detto, di garantire la totale gratuità dell’istruzione per le fasce più deboli della popolazione, il carattere universalistico dell’accesso alla sanità, ma tutto questo non può che realizzarsi oggi attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione del privato sociale, che è progressivamente cresciuto nella società italiana, supportando il ruolo della famiglia, anzi delle famiglie, che sono state un argine importantissimo alla crisi del welfare e alla frammentazione sociale.
E ancora, si tratta di immaginare una nuova finanza d’impatto nella quale la remunerazione dei capitali sia legata non alla capacità speculativa, ma a progetti di trasformazione sociale e ambientale. Ecco perché, quindi, parole d’ordine storiche assumono oggi significati e declinazioni e destinatari parzialmente diversi dal passato. Ma dobbiamo fare si che quando si chiede a un elettore che cosa vuole il Pd quasi istintivamente possa rispondere: vuole ridurre le distanze, geografiche, sociali, culturali.
E quindi si batte per una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, che è la principale ingiustizia del Paese, per realizzare un fisco giusto nel quale lavoro e rischio di impresa siano avvantaggiati.
Di fronte a un passaggio cruciale come quello che stiamo vivendo è giusto evitare ogni reticenza e ogni ipocrisia e mettere in discussione tutto. E allora è giusto chiedersi, senza giri di parole se le difficoltà incontrate dal Pd non siano la conseguenza, come spesso si dice, del prevalere di una delle culture fondative sulle altre. Faccio solo alcuni esempi. Potremmo oggi fare a meno, di fronte alle grandi trasformazioni tecnologiche e produttive, dell’attenzione che la cultura socialista ha posto, al tema del lavoro e della giusta remunerazione e qualità? Potremmo fare a meno della sua spinta al riscatto, alla liberazione dalle forme più odiose di sfruttamento, proprio mentre se ne pongono di nuove? Io credo di no. E tantomeno credo che questo ci renderebbe più moderni.
Ma meno che mai potremmo fare a meno dell’apporto del personalismo cristiano e della centralità che esso indica nei corpi intermedi e nella dimensione comunitaria.
Che cosa oggi può costituire un’alternativa più seria alle parole d’ordine della destra nazionalista e ai suoi totem se non l’idea stessa della comunità, come condizione essenziale per lo sviluppo della persona? Veniamo da anni nei quali ci si è illusi, anche di fronte alla consunzione dei soggetti sociali, che la disintermediazione potesse garantire decisioni più rapide, leadership più solide e alla fine costituisse essa stessa un elemento di modernità. Le cose, in verità, non sono andate così. La solitudine e la frammentazione hanno, invece, incrementato paura e rabbia. Ho già detto quanto e quale sia centrale il pensiero ecologista.
Semmai dovremmo chiederci perché ha avuto, questo sì, così tanta difficoltà ad affermarsi nel nostro partito.
E ancora, possiamo di fronte alle minacce che le nuove tecnologie portano all’individuo e alla sua liberta di scelta rinunciare al contributo della cultura liberale, alla sua lotta storica all’invadenza dei poteri repressivi a favore del sistema delle garanzie?
Io credo, anche in questo caso di no. Io non credo che il Pd sarebbe più forte privandosi di uno di questi apporti. Quello che semmai è stato un limite che ha segnato profondamente la nascita e lo sviluppo del Partito Democratico, è stata una sottovalutazione dei moniti che da ciascuna di queste culture poteva venire per la critica della modernità e dei cambiamenti che stavamo vivendo. Abbiamo avuto una lettura debole delle contraddizioni contro la quale il meglio di queste culture provò a metterci in guardia. È prevalso, invece, un altro punto di vista fortemente influenzato da un ottimismo, quasi di impronta positivista, nei confronti dell’economia globale che non ci ha fatto vedere l’altra faccia della medaglia. Storditi dall’esplosione dei voli low cost, dalla creazione della rete, dall’enorme aumento della produzione di beni di consumo a prezzi finalmente accessibili, dalla crescita tumultuosa di nuove tecnologie che hanno migliorato la nostra vita, allungandola e migliorando la sua qualità e che ci hanno liberato dalla fatica, non abbiamo saputo vedere quanti e quali erano gli effetti collaterali di questa evoluzione.
Ma noi vogliamo essere allegri, dunque leggeri, perché abbiamo risolto i problemi di cui siamo consapevoli, parafrasando Calvino. Non vogliamo un’allegria prodotta dall’inconsapevolezza e, come tale, effimera.
Le nostre culture fondative contengono gli elementi necessari per una critica dell’esistente e per preparare il cambiamento.
E credo che sia sempre più difficile oggi separarle, dividere ciò che si è nel frattempo profondamente intrecciato. Nel mese di novembre Gianni Cuperlo a Bologna organizzerà un momento di riflessione sulla nostra cultura politica e a questo punto sul contributo che essa può dare al governo di svolta. Con altrettanta franchezza è giusto chiedersi se sia venuta meno l’ispirazione che ci ha fatto cercare non solo una fusione tra le culture politiche, ma ha fatto nascere il Partito Democratico come soggetto a vocazione maggioritaria.
Anche in questo caso, io credo che quella impostazione fosse giusta. Allora quell’ambizione fu sovrapposta in modo riduttivo all’esigenza di consolidare il bipolarismo. Si affermò anche per questo un’accezione del concetto che lo fece coincidere con una sorta di sospensione nel vuoto, con la costante ricerca del politicamente corretto fino a sconfinare nell’incolore e nell’insapore.
L’intento di parlare a tutti in astratto ha finito per farci correre il rischio, talvolta, di non riuscire a parlare a nessuno in concreto.
Se invece pensiamo più propriamente a una forza che partendo da ingiustizie che colpiscono settori sociali e aspirazioni che mobilitano energie, è in grado però di parlare a tutta la società e di farsi carico costantemente dell’interesse nazionale, allora io credo che quella concezione, non solo mantenga una forte attualità, ma sia l’unica attraverso la quale sia possibile immaginare il cambiamento in questo tempo. Non sarà la frammentazione di un campo e la divisione dei ruoli, concezione questa sì davvero novecentesca, a farci costruire un futuro migliore. La vocazione maggioritaria è dunque il frutto di un’impostazione culturale, di un’attitudine direi, piuttosto che di meri meccanismi elettorali. Tuttavia, la riforma costituzionale che porterà alla riduzione del numero dei parlamentari, parte dell’accordo di governo ci spinge per l’ennesima volta di ripensare la legge elettorale. L’esigenza immediata è quella di superare il rischio che la riduzione della rappresentanza sacrifichi oltremodo il pluralismo politico e territoriale. Dobbiamo però prendere anche atto del fatto che la legge vigente non ha raggiunto gli scopi che si prefiggeva.
La quota maggioritaria, anziché temperare spingendo alle coalizioni l’impianto proporzionale, ha finito per essere una sorta di premio dato a cartelli elettorali che si sono dissolti il giorno dopo il voto. L’elettorato, a causa della scheda e del voto unico, ha votato poi le forze politiche piuttosto che i candidati proposti nei collegi. Non si è realizzato, dunque, l’obiettivo desiderato di ricostruire un rapporto più forte tra corpo elettorale ed eletto. Come nelle indicazioni della sentenza della Corte.
Una nuova legge elettorale deve risolvere questi temi superando la schizofrenia dell’attuale impianto. Discuteremo nelle prossime settimane di questo argomento. Penso però che non si debba dare per scontato che l’unico approdo possibile sia quello del proporzionale, seppure con un significativo sbarramento. La sfida che ci attende si gioca in larga parte nel vivo della società. Questo dato evidenzia, ancora di più, l’inadeguatezza del partito così come oggi è. Il partito, però, non si riforma né con l’evocazione generica dell’unità né con il suo corollario, che è la rituale invettiva contro le correnti. Il correntismo esasperato è la conseguenza della mancanza di luoghi di discussione e di confronto in grado di favorire l’elaborazione e la sintesi. Per troppo tempo il partito è stato lasciato a se stesso. Così dopo le nostre riunioni, spesso si torna a casa con la stessa idea che si aveva prima di andare. La discussione coincide frequentemente con la riproposizione dei rapporti di forza sclerotizzati nel tempo.
La spinta che viene dalle nostre regole a sciogliere ogni nodo attraverso la competizione, ha portato a una conflittualità permanente che frena, quando non impedisce, l’apporto di energie esterne e vive. Così come si sono fatte strada, anche al nostro interno, forme di bullismo verbale che paiono mutuate dal linguaggio dei social, nell’esercizio dell’azione di direzione politica, a volte, inutilmente muscolare, rendendoci, almeno nei toni, troppo simili ai nostri avversari. Occorre ripensare questo modello senza rinunciare alla contendibilità e alla capacità di mobilitazione che, comunque, le primarie continuano ad avere, come abbiamo registrato anche nell’ultimo congresso. La commissione presieduta da Maurizio Martina sottoporrà presto a questo organismo un’ipotesi di riforma. Frattanto, avendo l’esigenza di intervenire rapidamente su alcune situazioni critiche, è forse utile indicare alcuni criteri che trasmettano il segnale chiaro di una fase nuova. Criteri quasi ovvi ma che ovvi non sono nel partito vivente, diciamo così.
In un momento così difficile per la vita del partito si devono limitare al massimo il cumulo di incarichi. È necessario, poi, evitare che ogni incarico diventi il trampolino per un altro incarico. Dobbiamo mettere più donne a dirigere le strutture del partito, le quote non bastano più. Abbiamo bisogno di un partito nel quale la selezione delle classi dirigenti non sia soltanto basata sull’imprescindibile livello di consenso, ma anche, sulla qualità dell’apporto intellettuale che ogni componente può dare.
Dobbiamo restituire agli iscritti la possibilità di intervenire sulle grandi scelte che esulano dall’individuazione delle candidature, ma che riguardano la vita delle comunità a ogni livello. Sulle stesse scelte che il governo si troverà ad affrontare nei prossimi mesi, io credo che dovremmo attivare delle grandi campagne di discussione, di confronto e anche dei momenti di carattere decisionale, che coinvolgano tutto il corpo del partito fino ad arrivare a momenti di decisione vincolante.
Nelle prossime settimane lanceremo una campagna di carattere straordinario per l’adesione al Partito Democratico, per l’apertura di nuovi circoli e di nuove occasioni di partecipazione, anche attraverso l’attivazione reti di carattere tematico, la costituzione di Forum a livello nazionale e a livello locale, che siano in grado di coinvolgere persone che, pur disponibili a impegnarsi in singole battaglie di carattere riformista, non avvertono, o ancora non avvertono, l’esigenza di una piena adesione al partito.
DAL 3 AL 6 OTTOBRE METTEREMO IN CAMPO UNA MOBILITAZIONE STRAORDINARIA con ASSEMBLEE IN TUTTE LE FEDERAZIONI. Dobbiamo accentuare la funzione del partito come punto di riferimento delle rappresentanze di carattere civico.
Nei giorni scorsi abbiamo avviato un percorso che porterà alla sigla di un patto di reciproca consultazione e di collaborazione con il movimento di Italia in Comune, che raccoglie una parte significativa del civismo presente negli enti locali. Sarà un viatico prezioso per le prossime sfide amministrative che ci attendono. Le prossime elezioni Regionali saranno il primo step importante. Una grande sfida ma anche una nuova occasione. L’alleanza a livello nazionale con il Movimento 5 Stelle fa venire meno l’impercorribilità delle alleanze a livello locale. Questa è una condizione necessaria, ma non sufficiente per fare le alleanze che vanno verificate realtà per realtà, sulla base delle convergenze programmatiche e dei contenuti. In ogni caso l’interlocuzione è importante perché consente di avvicinare dei campi, di parlare a una parte di elettorato del M5S e di provare a dare insieme una risposta ai cittadini. Questo confronto va fatto senza alterigia, ma anche senza subalternità e senza rinunciare a rivendicare le esperienze di buon governo di cui siamo stati protagonisti. Il lavoro che si sta facendo in Umbria, in una situazione molto difficile, dimostra che questo percorso può essere proficuo, tuttavia, non ci deve essere alcun automatismo. Il lavoro da fare è dunque moltissimo. Se c’era una cosa di cui non si avvertiva il bisogno in questo momento è una scissione. Abbiamo, per esigenze retoriche e qualche concessione alla propaganda, parlato di una scelta incomprensibile.
In verità le ragioni di questa scelta sono facilmente comprensibili, ma nulla hanno a che vedere né con eventi storici, né con il dissenso politico né con l’esigenza di rafforzamento della maggioranza di governo. Rispondono, forse, a un malessere individuale e a legittime aspirazioni individuali e collettive. E, per quanto non possiamo che augurare successo all’ambizione di allargare il campo delle forze europeiste e democratiche, non possiamo non vedere come nell’immediato quella scelta finisca per avere un riverbero negativo sulla stessa esperienza di governo che abbiamo appena inaugurato. In primo luogo, perché conferisce a tutta l’operazione che ha portato alla nascita dell’esecutivo un che di inautentico e strumentale, che deriva dall’evidente presenza di una riserva mentale. Il governo che noi vogliamo è un governo che ha l’ambizione di cambiare l’Italia e non il riempitivo per consentire la nascita e il rafforzamento dell’ennesima sigla politica. Va detto però che ogni tentazione di indebolire o di interrompere questa esperienza troverebbe nel Paese una reazione durissima, uguale e contraria alla spinta che abbiamo interpretato con la scelta di far nascere il Governo. Come ho detto, auguriamo successo a questo tentativo di fondare una forza centrista, così come abbiamo fatto in questi anni a tutti i tentativi che sono andati in questa direzione. Anche se sappiamo che qui forse le ambizioni sono ulteriori. Il Pd perde un uomo di governo capace e brillante con una certa tendenza al vittimismo e dei validi dirigenti politici, non se ne va però una cultura politica. Il Partito Democratico continua a essere ciò che era prima di questa scelta. La casa dei riformisti. E forse, senza l’ansia di repentine rivincite individuali, sarà più semplice costruire una riscossa collettiva. Mi sento solo di aggiungere un appunto. Ho letto che uno dei motivi che avrebbero portato alla scissione starebbe nel senso di estraneità fatto percepire dalle parole e forse dagli sguardi dei compagni di partito. Non sto qui a ripercorrere questi anni, non c’è tempo e tutti vogliamo e dobbiamo guardare avanti. Mi limito a dire che abbiamo vissuto tutti momenti difficili. Quello che osservo è che se militi e dirigi un partito di centrosinistra che ambisce a unire i riformisti e a superare le frammentazioni del secolo scorso, che mantiene un’ambizione maggioritaria e che nasce per battere il partito personale per antonomasia e poi fondi un partito personale, di centro, determinando una nuova frammentazione, ti devi chiedere se quella scelta non sia una manifestazione ex post di estraneità a quel progetto politico e se le diffidenze non avessero qualche fondamento.
Ora comunque è tempo di rendere più intenso l, con tutte le forze che compongono la maggioranza, il nostro lavoro al governo di fronte al quale si pone un impegno gravoso. Ci sono, già oggi, fatti che segnano la discontinuità che abbiamo reclamato. Alcune evidenti e visibili, ricordavo la designazione di Gentiloni alla Commissione, o il fatto che gli uomini e le donne scendano dalle navi e non siano tenuti in ostaggio della propaganda e usati come bersaglio del razzismo e del rancore. Partendo dalle osservazioni del Capo dello Stato, che voglio ancora da qui ringraziare per l’equilibrio e la saggezza con cui ha saputo guidare questa difficile fase del Paese, dovremmo superare le norme odiose e propagandistiche di Salvini in materia. Auspichiamo che il vertice de La Valletta di oggi consenta un significativo passo avanti verso una prima assunzione di responsabilità dell’Europa nella gestione dei flussi e nell’accoglienza. Un obiettivo che, è quasi superfluo dire, non si raggiunge né disertando i tavoli né aprendo conflitti con tutti i Paese coinvolti. La presunta chiusura dei porti, è bene ricordarlo oggi, ha visto 15.000 sbarchi, di cui circa 1500 persone salvate dalle Ong. Questi sono i numeri.
Ci sono poi fatti meno visibili, ma altrettanto importanti, penso alla scelta del Ministro Gualtieri di far aderire l’Italia alla coalizione dei Ministri finanziari contro i cambiamenti climatici. Le incognite più grandi ci attendono però a partire dalla manovra finanziaria che non potrà essere basata soltanto sul recupero di credibilità e quindi di flessibilità del bilancio in sede Europea. Occorre sin da quel passaggio neutralizzare gli effetti più negativi dell’aumento dell’Iva e contemporaneamente dare segnali nella direzione dell’equità, del sostegno alla domanda, alleggerendo la pressione fiscale sul lavoro. Serve subito un piano straordinario per la casa, come ha ricordato più volte Zingaretti . (Salario minimo, parità salariale, equo compenso, aree interne, nord). Dobbiamo rendere meno complicata la vita dei nostri amministratori, a chi è impegnato nel governo locale, che è la vera culla del nostro riformismo. E la scelta rafforzare gli asili nido e di rendere gratuito l’accesso ad essi non può che vederci entusiasti. E al lavoro nel partito, c’è un clima positivo, dopo la soluzione della crisi, tra i nostri militanti, chi ha partecipato alle feste de l’Unità credo che lo abbia constatato. E’ un clima di positiva attesa e di rinnovata disponibilità all’impegno che dobbiamo cogliere.
Non è un’apertura di credito in bianco ma è sicuramente una voglia di tornare a discutere e confrontarsi. Si tenterà di banalizzare questo clima. Esce Renzi e un pezzo di ceto politico, entra un altro pezzo di ceto politico. In verità è qualcosa di più largo, riguarda il mondo moderato e la sinistra, l’associazionismo d’impresa e il sindacato.
Si può far respirare il partito.
L’importante è che si dia subito segno dell’apertura della volontà di ascolto, dell’attenzione a ricostruire una trama di relazioni che nel corso di questi anni si è lacerata e compromessa. Mettiamoci a disposizione di quella parte di società che si è mobilitata in questi mesi contro la destra. Forse, e oggi è l’occasione per iniziarne a discutere anche con un passaggio che coinvolga tutti i nostri iscritti e i nostri elettori affrontando fino in fondo le conseguenze della fase radicalmente nuova che si è aperta con la nascita del governo. Dobbiamo proseguire il lavoro di rinnovamento e di apertura che abbiamo iniziato con il congresso e che ha iniziato a essere premiato alle ultime elezioni europee. Con più velocità,non ci facciamo ingannare dalle finte,la competizione nel nostro campo non sarà sullo schema destra-sinistra ma su quello velocità-lentezza,nuovo-vecchio. Con più velocità,dunque.
Con ancora più coraggio e determinazione.