La Carta dimenticata
Quanto diversa avrebbe potuto essere l’Italia se tutta la nostra Costituzione fosse stata attuata
Si riparla di modifiche costituzionali, nonostante i molti scacchi. Insomma, la Costituzione e la sua riforma continuano a giocare un ruolo importante. Riparliamo della Costituzione, dei suoi ideali e della sua attuazione. La costituzione materiale si è sviluppata lungo le linee tracciate dalla Costituzione formale?
Prima di risponderle, ricordo che già alla Costituente si era formato un chiaro giudizio sulla Costituzione: la prima parte è presbite, guarda lontano, la seconda è miope. Da allora, si è passati attraverso una prima fase durante la quale la Costituzione è stata rappresentata come un ideale da realizzare: è la fase della Costituzione tradita o non attuata (la Corte costituzionale comincia a funzionare quasi un decennio dopo l’entrata in vigore del testo costituzionale; le regioni 22 anni dopo). Poi è venuta la fase della Costituzione da riformare, perché insufficiente, fase che inizia intorno agli anni 80.
E ora?
Ora dovremo ritornare alle norme dimenticate, che rappresentano una ricchezza inespressa della Costituzione.
Elenchiamole.
Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Secondo comma dell’articolo 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Articolo 10: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Articolo 39: “Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme stabilite dalla legge. E’ condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica”. Articolo 46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Articolo 47: “La Repubblica […] favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese”.
Aggiunga a questi articoli il principio del “concorso”, fissato dagli articoli 97 e 106, quello collegato della competenza stabilito dagli stessi articoli, oltre che dall’articolo 33 sull’esame di Stato, quello di imparzialità e indipendenza, stabilito dall’articolo 33 per le università e dagli articoli 97 e 104 per l’apparato amministrativo e l’ordine giudiziario.
Quali conseguenze trae da questo lungo elenco?
Quanto diversa avrebbe potuto esser l’Italia se i complessi produttivi del paese fossero nelle mani dei risparmiatori, se i lavoratori avessero potuto cogestire le imprese, se venisse veramente riconosciuta l’imparzialità amministrativa, se si riconoscesse come valore la competenza, se venisse riconosciuto il dovere di solidarietà e quello di svolgere una funzione per concorrere al progresso della società, se allo straniero riconoscessimo gli stessi diritti che riconosciamo ai cittadini! Perché questi articoli, pur così importanti, sono stati dimenticati? Perché la costituzione materiale è andata per altre strade, verso una società più slegata, meno coesa, meno preoccupata di valori collettivi? Ecco una bella domanda per gli storici.
Ma quale è il fine ultimo di una Costituzione? Dove vuole arrivare?
L’inglese Ruth Whippman ha notato che la cifra spesa dagli americani per acquistare libri su come trovare la felicità sia arrivata al record di un miliardo di dollari all’anno. La Costituzione americana del 1776 dispone che vanno assicurati ai cittadini “life, liberty and the pursuit of happiness”. Eccolo, lo scopo ultimo di una costituzione, la ricerca della felicità, che la “dichiarazione di indipendenza” metteva tra gli “unalienable rights” di ogni uomo, di cui questo è dotato dal Creatore.
Ma quale felicità?
Quella collettiva, che Jefferson indicava come “prosperity, thriving, well-being”, ma non solo individuale. Antonio Genovesi aveva osservato che “è legge dell’universo che non si può fare la nostra felicità senza fare quella degli altri” (Autobiografia e lettere, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 449). Diderot che “la felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire coltivando la virtù”. E John Stuart Mill: “Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi, ma come fini ideali in sé stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa, trovano la felicità lungo la strada”.
Che vuol dire questa concezione larga di felicità?
Quello che spiega Emanuele Felice nel suo bel libro Storia economica della felicità (Bologna, il Mulino, 2017): le condizioni della felicità collettiva sono la soddisfazione dei bisogni materiale, la qualità delle relazioni umane, il senso della vita, uno scopo cui indirizzarla. Questa idea più ampia va al di là di una ristretta all’edonismo, comprende la città, lo Stato e le istituzioni, la democrazia.
Concludiamo.
Vi fu chi scrisse, nel 1946: pensavamo che le stelle fossero a portata di mano. Ne afferrarono qualcuna. Mi pare che sia nostro compito ridare almeno la speranza che le stelle siano nuovamente a portata di mano.