La riforma elettorale può attendere
Costruire infrastrutture, ridurre le disuguaglianze, investire nella ricerca e nell’istruzione, migliorare la sanità. Le priorità per l’Italia sono altre
Probabilmente non a caso, il cambiamento intervenuto nella maggioranza è stato accompagnato dalla ripresa del dibattito sulla riforma della legge elettorale. Vi concorrono due spinte di segno opposto. Da un lato, il leader della Lega ha manifestato l’intenzione di promuovere un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale. Dall’altro lato, se fosse approvata la riduzione del numero dei parlamentari – sollecitata dal Movimento 5 stelle – ne discenderebbe la necessità di mettere mano al sistema elettorale.
La richiesta del referendum abrogativo della legge vigente muove da un giudizio negativo sull’esperienza recente: perché – come Roberto D’Alimonte ha più volte evidenziato – con questo sistema elettorale non basta contare i voti, ma bisogna anche vedere come sono distribuiti; perché la coalizione che ha ottenuto più voti non ha assunto il governo del paese e poi si è divisa. Da questo giudizio negativo nasce il proposito di ribadire la vocazione maggioritaria affievolita dalla legge attuale. Al di là del disegno politico sotteso alla richiesta del referendum, a sostegno di una legge elettorale di segno maggioritario militano più argomenti. Innanzitutto, la transizione dalla legge elettorale di tipo proporzionale alla legge elettorale di tipo prevalentemente maggioritario non avvenne per editto del principe, bensì per volontà dell’elettorato. Esso si espresse in sede referendaria, con più dell’ottanta per cento dei voti. Vi influì senz’altro un giudizio complessivamente negativo dei cittadini sul rendimento delle istituzioni politiche. Ma non è da scartare l’ipotesi che una parte non irrisoria degli italiani possa tuttora preferire una legge elettorale di tipo maggioritario, perché valorizza sia il ruolo degli elettori nella scelta di chi governa (pur nel quadro della democrazia parlamentare), sia l’azione del governo. In secondo luogo, la elegge elettorale approvata nel 1993, nella cui elaborazione svolse un ruolo fondamentale – da deputato - Sergio Mattarella, diede una buona prova nelle tre elezioni in cui fu utilizzata (1994, 1996, 2001). L’avrebbe forse fatto ancor meglio, se non avesse incontrato due ostacoli: prima del voto, l’uso di liste minori, per eludere talune norme; dopo il voto, la condotta di tipo opportunistico delle forze politiche, all’interno delle istituzioni parlamentari. Chi propone il ritorno al sistema maggioritario dovrebbe tenerne conto.
Chi, invece, chiede il completamento dell’iter della riforma costituzionale volta alla riduzione del numero dei parlamentari, dovrebbe essere ben consapevole delle ripercussioni che ne deriverebbero. Si tratta d’una decisione molto rilevante e altrettanto controversa. Come quasi sempre accade, una modificazione della Costituzione presenta vantaggi e svantaggi. In questo caso, gli svantaggi sono probabilmente superiori ai vantaggi, perché occorreranno più voti per essere eletti e ciò può influire negativamente sul pluralismo politico. Detto ciò, se si consolidasse un accordo tra le forze politiche che sostengono l’attuale governo, se la Costituzione fosse nuovamente modificata da un’esigua maggioranza, come è purtroppo accaduto a partire dal 2001, allora sarebbe necessario porre mano alla legge elettorale. Lo si dovrebbe fare, secondo alcuni specialisti, modificando la legge elettorale vigente nel senso di accentuare ulteriormente l’impianto di tipo proporzionale, per consentire al sistema politico di rappresentare adeguatamente gli interessi della collettività.
Nell’insieme, questi progetti politici sollevano più di un dubbio. Il primo è se vi sia una sufficiente stabilità, in un sistema partitico non assestato, per realizzare una riforma elettorale. Un altro dubbio riguarda le prevedibili conseguenze. I due progetti divergono, ma entrambi finirebbero per dare luogo a un referendum, di tipo confermativo o abrogativo, e quindi per ridare la parola ai cittadini. Ciò può confortare chi ritiene che si debba coltivare maggiormente il legame diretto con il popolo. Può preoccupare, invece, chi pensa che, quando si modificano le regole del gioco democratico, le forze politiche debbano seriamente impegnarsi nella ricerca di larghe intese. Il dubbio finale è se per l’Italia, dopo le elezioni nazionali e quelle europee, nonché numerose elezioni regionali, in una situazione politica precaria, sia davvero il momento di spendere tempo ed energie in un’ulteriore riforma elettorale, anziché impegnarsi nella realizzazione degli obiettivi sostanziali (costruire infrastrutture, ridurre le disuguaglianze, investire nella ricerca e nell’istruzione, migliorare la sanità) in vista dei quali i cittadini di volta in volta hanno espresso il proprio voto.