Non c'è modo, caro Bettini, di riconquistare benignamente il popolo sequestrato da Salvini
Il popolo va sciolto, sbandito, riconfigurato in altro. Il Papeete Trumpo-Salviniano è plebe da demagoghi, una insopportabile rissa di strada, mentre la rete dei diritti e del welfare è società civile compatibile con la democrazia liberale
C’è questa idea che bisogna riconquistare benignamente il popolo sequestrato da Salvini nei modi scollacciati, burleschi ma minacciosi che sappiamo. Se ne fece interprete qui ieri Goffredo Bettini, in un saggio di tono ingraiano, significativo al punto da attenuare la mia diffidenza amichevole (e anche no) verso l’autore di quella truffa in commercio politico chiamata Ignazio Marino nel famigerato pasticcio romano incommestibile. Io sono dell’idea precisamente opposta. Il popolo va sciolto, sbandito, riconfigurato in altro. Il famoso “we, the people” della democrazia americana è l’opposto del popolo-nazione all’europea dall’Ottocento in poi, è nozione costituzionale, insieme di diritti di radice trascendente e individualismo non intollerante di libertà e comunità, sancito e connesso da un patriottismo sì, ma universalistico. Il Papeete Trumpo-Salviniano è plebe da demagoghi, una insopportabile rissa di strada, mentre la rete dei diritti e delle protezioni collettive del welfare è società civile compatibile con la democrazia liberale moderna e globalizzata, almeno tendenzialmente.
Nella sua ansia di comunista sentimentale, tra le cose umane quella che mi è più estranea, Bettini vuole un salvinismo senza il fanatismo la truceria e la bellicosa farabuttaggine di Salvini. Lo vuole come riemersione a sinistra delle “forme”: il senatore che ha ballato una sola estate ha purtuttavia, e potrebbe un giorno raccogliere il consenso necessario a riproporsi, curato la solitudine, la minorità e lo sradicamento identitario del popolo con il quale le classi dirigenti hanno colpevolmente cessato di identificarsi. Bei tempi, scrive Bettini, quando amavamo mischiarci perfino con il ladro di borgata, per insegnare e imparare al tempo stesso, in un’aura di umiltà e missione sociale di tipo cristiano che tanto assomiglia al comunismo dei sentimenti. Ai malandrini o al malandro, posto che siano picari o letterariamente giustificati, ho sempre dedicato parte cospicua dei miei affetti, sottraendoli ai gentiluomini che fanno la lezione.
Nella seconda parte del Don Chisciotte, capitolo XXIV, Cervantes mette in bocca al Cavaliere dalla triste figura un pensiero tipicamente controriformista che non condivide e che imputa alla sua vena di pazzia conformista, secondo il mio giudizio di lettore: “… nella peggiore delle ipotesi, fa meno male l’ipocrita che si finge buono, che l’uomo corrotto che dà pubblico scandalo”. Nel mio chisciottismo radicale credo che tutta la storia dell’eroe, e come dice bene il Cassese va letta con attenzione almeno tre volte, sia la dimostrazione di quanto è salvifico lo scandalo pubblico e condannevole il peccato nascosto. Insomma anch’io amo la plebe e il plebeismo, che romano sarei sennò, ma voglio altro, e pazienza per la solitudine e lo sradicamento, alla base della convivenza civile.
Il re del peccato nascosto, Ernesto Galli dei miei Stivali, ha malamente polemizzato, con la volgarità di non nominarla, con la salda posizione di questo giornale in lode politica e paradossale del trasformismo, e ha mostrato di non aver compreso che l’Italia è in larga parte figlia di un connubio, quello appunto trasformistico tra Cavour e Rattazzi, e di molti altri connubii. Questi terzisti malaticci prima votano Grillo, poi chiedono il voto subito per avere subito Salvini. Mah! Resta il fatto che se il senatore Salvini piace ai destri e ai sinistri del postcomunismo, gli uni affascinati dal nordismo e dal pil, gli altri dalle forme populiste capaci di curare la solitudine dei dimenticati del capitalismo, all’amendoliano passato per Craxi e Berlusconi la caricatura del decisionismo e del populismo non piace né poco né punto.