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Matteo Orfini ci spiega perché al Pd serve un congresso vero

David Allegranti

“Facciamo un partito all’americana. E attenzione: il rischio non è di costituzionalizzare il M5s ma di grillizzarci noi”

Roma. Serve un congresso vero, spiega Matteo Orfini al Foglio, per dare vita a un Pd “all’americana”. Non una “casa comune”, per dirla con Dario Franceschini, insieme ai Cinque stelle. “Credo che la scissione sia una cosa seria, sbagliata ma seria, e avrà degli effetti sul Pd. Si è creato un soggetto simile al nostro, che pesca nello stesso bacino. Ci saranno anni di competizione molto forte, che può distruggere il Pd ma anche chi ha fatto la scissione. Questo passaggio non va sottovalutato”. Dunque, sottolinea Orfini, dobbiamo discutere su come “si rifonda un progetto, su quale sia il percorso di riorganizzazione del centrosinistra come sistema e su come ripensare il Pd. Serve una discussione che abbia la caratura congressuale: serve un congresso vero, con le primarie e le regole che già ci siamo dati”. Non immediatamente, puntualizza l’ex presidente del Pd.

 

“C’è un’emergenza, dobbiamo prima provare a vincere le elezioni regionali, che sono il prossimo ultimo vero passaggio elettorale, perché per qualche anno poi non ci saranno altri appuntamenti di rilevanza nazionale. Ma prima o poi questo momento dovrà arrivare”. Perché “se si vuole cambiare la natura del Pd, non lo si può fare con le scorciatoie. Tutti abbiamo condiviso l’esigenza di far partire questo governo, a fronte di un’emergenza democratica – Salvini che chiede pieni poteri – ma un conto è proporre un’alleanza per rispondere a questa emergenza, un altro conto è immaginare di trasformare con un paio di interviste questa alleanza nel nuovo progetto politico del Pd”.

 

Franceschini teorizza già una “casa comune” fra Pd e Cinque stelle e, dice Orfini, “questo mi preoccupa, anche perché tutto si può fare nella vita ma serve un po’ di politica. Serve un progetto. E io non posso immaginare di costruire una alleanza strutturale che sarebbe fondata solo sull’idea di non perdere. Il Pd non può diventare un partito che ha come unico obiettivo la gestione del potere a prescindere dalla politica. La politica delle alleanze è importante ma è solo una parte dell’attività di un partito. Se invece c’è solo la politica delle alleanze, senza le idee, i progetti e la visione, in comune c’è solo la gestione del potere”. Prendiamo il caso delle alleanze nelle (ex) regioni rosse. Come l’Umbria. “Vogliamo allearci con i Cinque stelle nelle regioni rosse – laddove dopo decenni rischiamo di perdere – per ragioni che non vogliamo affrontare o discutere. Solo per non perdere, appunto. Per carità, è un argomento pure questo, e io lo capisco, però non possiamo immaginare di sommare due debolezze e costruire una forza. L’unico che finora ha abbozzato un ragionamento politico, che pure non condivido, è stato Goffredo Bettini sul Foglio. Dà una lettura molto diversa da quella che do io del M5s, però diciamo che almeno negli obiettivi ne indica uno condivisibile. Dobbiamo ricostruire il senso di comunità nel paese, depurandolo dalle scorie dell’odio e della rabbia, cercando di ricreare quella che una volta si chiamava civitas. Tuttavia, e qui sta il punto di dissenso, non posso non vedere a differenza di Bettini come questa disgregazione del tessuto connettivo non sia stata generata solo da Salvini ma anche dal M5s. Anzi, le dirò di più: il M5s è stato l’incubatore del virus che poi è esploso con Salvini. Quindi io faccio fatica a considerare il M5s la cura del virus che ha incubato, anche perché non vedo segni di ravvedimento da parte loro. Su tanti aspetti storici e fondativi del M5s, e negativi per il paese, non c’è stato un ravvedimento operoso. A partire dalla democrazia rappresentativa”.

 

Certo, dice Orfini, “un cambio c’è stato e non va sottovalutato sulla scelta europeista, e questo lo riconosco. Ma mi pare presto per abbozzare un’idea di questo tipo: rifondiamo un nuovo centrosinistra a trazione grillina. Anche perché il campo progressista arriverebbe separato e diviso, quindi ancor più debole. Io ho grande rispetto per la capacità salvifica e rigenerativa di un’intervista di Franceschini, ma penso non basti a produrre una palingenesi nei Cinque stelle e a trasformarli da populisti a riformisti”. 

 

Anche perché i “Dl Fraccaro sulla riforma costituzionale sono ancora lì, in parlamento. Così come l’idea di smantellare la democrazia rappresentativa e la democrazia dei partiti è sempre presente nel M5s. La politica è anche evoluzione quindi non escludo che ci possa essere una evoluzione dei Cinque stelle tale da mutarne la natura, ma a oggi non la vedo”. Il Pd insomma, deve darsi un tempo utile per “ricomporre le divisioni. Tre anni, il tempo della fine della legislatura, visto che tutti speriamo che le elezioni politiche si tengano a scadenza naturale. E io voglio pure stare nel ragionamento di Bettini, secondo cui c’è un popolo che è già unito e invece nelle istituzioni è diviso dagli egoismi dei gruppi dirigenti e dalla rigidità dei contenitori e dei vincoli partitici che abbiamo oggi”. Tema non nuovo, dice Orfini. “Già un anno fa proposi di sciogliere e rifondare il Pd, tutti quelli che dicevano che era una follia, a cominciare da Nicola Zingaretti, oggi parlano di rifondare il Pd. Ma questo significa che o noi plasmiamo di nuovo un soggetto progressista su quel popolo o non ne usciamo. Un anno e mezzo di Salvini al governo ha aiutato la nostra gente a superare le divisioni di questi anni, nelle mille realtà civiche, sociali, sindacali, di partito e non, che ci sono in Italia. Il popolo progressista ha protestato e manifestato insieme”. Quindi, dice Orfini, perché non pensare a “un unico soggetto politico che rappresenti tutti, come c’è già in tante parti del mondo. Negli Stati Uniti, dove il Pd americano contiene contiene componenti più diverse di quanto non lo siano Fratoianni e Renzi. Certo, hanno meccanismi meno rigidi dei nostri partiti per stare insieme, si contano e poi fanno la sintesi nelle istituzioni”. 

 

Dunque, “diamoci tre anni e un obiettivo: un contenitore unico dei progressisti. Senza il M5s naturalmente. Facciamolo gradualmente, ma il modello è il Partito democratico americano, un cartello elettorale in cui ognuno sta dentro il partito con la sua struttura, la sua associazione, la sua realtà civica, in modo da consentire a un popolo di riconoscersi in un soggetto unico e di mantenere e valorizzare le proprie differenze in positivo. Lo vedo più in linea con il progetto del Pd. Invece mi chiedo come facciano Veltroni e Prodi a stare in un nuovo pentapartito a guida grillina. Penso che neanche Zingaretti voglia starci”. Insomma, il nuovo Partito democratico all’americana dovrebbe riunire tutti quelli che Orfini chiama progressisti. “Da Fratoianni, che sui temi dell’immigrazione ha idee molto più simili alle mie di quante io ne abbia in comune con Minniti, alla parte liberal. Poi troviamo il modo di fare vivere queste componenti in maniera plurale, dandoci strutture meno ossificate e meno rigide rispetto a come funzione il mondo oggi. Anche perché, peraltro, abbiamo strutture decisionali rigide - direzione, assemblea, gruppi parlamentari - ma poi nei momenti decisivi discutiamo meno del M5s. Loro discutono e poi votano, come nel caso dell’Umbria, noi non ne abbiamo neanche parlato”. Quindi il Pd dovrebbe sciogliersi? “Il Pd è il soggetto politico che dovrebbe proporre questa strada mettendosi a disposizione. Questo non vuole dire sciogliersi ma lanciare una sfida politica agli altri. Che poi è quello che abbiamo sempre detto di fare. Come fa Renzi a dire no a una proposta del genere? Ma anche chi sta a sinistra, come può dire di no? Davvero pensiamo che sia vincente nell’Italia del 2019 un nuovo pentapartito fatto di coalizioni litigiose in cui il soggetto più forte è il M5s?”.

 

Altro tema è la legge elettorale. “Sposiamo il proporzionale per mantenere la vocazione maggioritaria. Il proporzionale non genera frammentazione, il maggioritario a turno unico sì. Dà solo vantaggi a costruire micropartitini che con lo 0,5 per cento diventano decisivi nei collegi. Non a caso il Pd e la Lega hanno vinto con il proporzionale puro. Alle Europee nel 2014 il Pd ha preso il 40,8, la Lega quest’anno il 34. Il proporzionale puro aiuta la costruzione di un’offerta politica e se dobbiamo fare la riduzione del numero di parlamentari modera anche gli effetti distorsivi sulla rappresentanza di quella riduzione”.

 

Il primo test per capire la tenuta di questo progetto sono le elezioni regionali nelle regioni rosse, citate prima da Orfini. Quelle dove il centrosinistra rischia di perdere senza aver mai discusso del problema. “Abbiamo avuto un flusso di voti in uscita dal Pd che andato alla Lega, come ha spiegato anche lei in un noto libro. In questi anni ho provato a spiegare che in quelle regioni c’era il tema di un modello che si stava esaurendo, che andava rigenerato e che in caso contrario saremmo arrivati al punto in cui poi siamo arrivati. Ogni volta sembrava che stessi offendendo i dirigenti locali del Pd. Oggi, anziché chiederci che cosa sia successo, cerchiamo la scorciatoia nella politica dell’alleanza. Il che si può fare, ma non vorrei che ci ritrovassimo come a Ferrara, dove dopo la sconfitta abbiamo detto: ‘eh ma si sapeva’. Proprio perché si sapeva, avevamo anche il tempo di intervenire. Ed era nostro dovere evitarlo. Un partito nell’emergenza può anche affidarsi alle alleanze ardite; poi però deve mettere a posto se stesso per arrivare più forte agli appuntamenti successivi. Altrimenti rischia di essere debole e subalterno a un partito come i Cinque stelle. Il rischio non è di costituzionalizzare il M5s ma di grillizzarci noi. E ne vedo già i primi segni”. Quali? “Il fatto che accettiamo la riduzione dei parlamentari senza alcuna forma e garanzia di contrappesi sulla legge elettorale. Oppure prendiamo le politiche dell’immigrazione. Io sono contentissimo del micro passo in avanti che è stato fatto a  Malta. Laddove dimostri che se vai ai vertici internazionali, anziché boicottarli come faceva Salvini, qualcosa ottieni. Dopodiché, se leggo le interviste di Conte che parla di fruttuosa collaborazione con la guardia costiera libica e dice che i decreti sicurezza, al netto delle osservazioni di Mattarella, vanno benissimo e noi non diciamo niente, beh, allora significa che abbiamo sposato una lettura che è quella di Salvini. Significa che abbiamo paura a combattere una battaglia perché non ci conviene”. Insomma “attenzione a non grillizzarci. Sono anni che vogliamo costituzionalizzare chiunque e poi ci scopriamo subalterni a quelli che volevamo costituzionalizzare”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.