Il Rito ambrosiano di Roberto Maroni
Gianni Letta e l'ex ministro, Roma e Milano, vizi e virtù. E le parole dette perché Salvini intenda
Roma. Si presenta nel cortile dell’Enciclopedia Treccani “Il rito ambrosiano - per una politica della concretezza” (Rizzoli), libro scritto dall’ex ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni, alla presenza, tra gli altri, dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Il libro è uscito circa un anno fa, quando ancora al governo c’erano i gialloverdi e non i rossogialli, particolare questo che lo rende tanto più interessante per Letta (“Maroni l’ha scritto troppo in anticipo”, dice, ma il libro, questo è il punto per Letta, è anche incredibilmente adatto ai tempi nuovi). Si parla di Milano e del suo modo (rito ambrosiano: concretezza, appunto) e della capitale e del suo modo (rito romano di somma indifferenza), e a un certo punto ci si domanda quale dei due riti abbia influenzato l’altro, e in capo a chi, principalmente. E l’impressione è che si parli di due modi di fare politica, sì, ma anche del modo ibrido di chi a Roma è diventato anche un po’ romano, dice Letta, ma non certo per indifferenza.
Piuttosto per nuova attitudine al “cesarismo” – e si parla in assenza di Salvini, sì, ma anche, forse, a questo punto, perché Matteo Salvini intenda. Roma e Milano, Milano e Roma, l’influenza dei social network e i tempi di carta in cui la notizia la si doveva aspettare alle sei della sera e non da una finestra su Facebook alle 8 del mattino. E gli spin doctor e i media manager, l’autonomia e la burocrazia, e poi quella differenza fondamentale tra Roma e Milano, al confine tra posto fisso e spirito imprenditoriale. E però caro Maroni, dice Letta, non si può dire, come scrivi tu, che il rito romano coincida con il rito a Cinque stelle. E a quel punto, parlando di disperata ricerca del consenso e camaleontismo esasperato, di qui e ora senza se e senza ma, si rievoca il momento ormai passato in cui “si dialogava”: “Con altri non mi sarei trovato bene ma con Maroni ho raggiunto spesso un punto di sintesi”, dice Letta con il sorriso di chi sa che tutti, di nuovo, penseranno “perché Salvini intenda”. Compromesso è parola “troppo vituperata”, dice, si rischia subito che qualcuno traduca “inciucio”, e allora lo si può (poteva) chiamare “equilibrio tra tesi opposte”, il contrario della radicalizzazione a tutti i costi. E a Roma si invidia così tanto Milano, dice Letta, che per Maroni sarebbe facile sancirne la superiorità, ma ci può essere in fondo una buona pratica dei due riti insieme, ambrosiano e romano, romano e ambrosiano, e Maroni infatti li ha praticati tutti e due, dice Letta, (e pare a un certo punto che “Maroni” sia la parte per un tutto politico-temporale: Maroni, cioè quando al vertice della Lega non c’era Salvini).
Il resto – nel racconto dell’ex ministro e nella versione critica di Letta – è storia dei tentativi di assorbire un rito nell’altro, il primo nel secondo e il secondo di nuovo nel primo, da San Carlo Borromeo in su e in giù, passando per Barbarossa e Alberto da Giussano, Marx ed Engels, Goethe e Kafka, Matilde Serao, Leopardi e Flaiano, tra trappole e liturgie, corridoi e prevaricazioni, assuefazione e ozio, fermento ed efficienza e massime di Quintino Sella, che per Roma non vedeva proprio un futuro industriale: troppi operai e cantieri avrebbero disturbato la quiete dei lavori in Parlamento. E chissà, dice Letta – ricordando il giorno in cui Roma, vista dal tetto del palazzo del quotidiano Il Tempo, durante la visita di Kennedy, pareva tributare un’accoglienza troppo fredda al presidente americano – forse aveva ragione l’autista che nello stesso giorno, sceso da un bus fermo, disse qualcosa come: beh, ma qui abbiamo avuto Cicerone come consigliere comunale. E tutto torna a Roma passando per Milano e va a Milano scendendo a Roma, dove tutto si rimpasta della medesima suddetta somma indifferenza.