Genova come metafora
“Il nuovo ponte deve essere un messaggio per tutta l’Italia: basta stare fermi”, dice il sindaco Marco Bucci
“Deve essere un messaggio per tutta l’Italia: facciamo le opere”, dice Marco Bucci, il sindaco di Genova, mentre i primi cinquanta metri di acciaio del ponte disegnato da Renzo Piano vengono poggiati sui piloni, a quaranta metri d’altezza, lì dove il 14 agosto dell’anno scorso l’Italia scoprì la decrepita fragilità delle sue infrastrutture. E allora mentre Giuseppe Conte si attorciglia con ampollosa genericità nelle parole, “manutenzione”, “caducazione”, “rinascita”, ecco che invece il sindaco, lui che incarna un’antropologia riservata, molto genovese, si esprime senza enfasi, perché con l’enfasi non ci costruisci un ponte e non ci rilanci l’economia, né ottieni dal governo la certezza che lo sviluppo non venga bloccato dalla stupidità ideologica che è sempre dietro l’angolo. “Qui abbiamo visto cosa significa non fare le cose”, ripete questo sindaco che rappresenta un centrodestra un po’ funzionalista e un po’ leghista, ma che pure non conosce le smargiassate di Matteo Salvini. “A Genova sappiamo cosa significa lasciare marcire le cose per coltivare la retorica del benaltrismo e della stasi”, dice. Genova metafora d’Italia, dunque, la città e la nazione la cui modernità è ferma agli anni Cinquanta, come suggerisce il sindaco, che avverte con dolore i pericoli di una politica nazionale che frena, che rallenta, prigioniera di timidezze e riflessi condizionati. Così ancora una volta, anche ieri, il ponte di Genova è diventato un esercizio di retorica per politici incapaci di pronunciare le parole “investimenti”, “infrastrutture”, “velocità”, “cemento”, “modernizzazione”, mentre al contrario per il sindaco Bucci quel ponte è la rappresentazione fisica di un bivio: sospeso tra due ipotesi di futuro.
Due settimane fa, il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, del Pd, non è andata a inaugurare i lavori della Tav in Piemonte per non scatenare la suscettibilità dei grillini alleati di governo. E nel suo ministero è sottosegretario lo storico leader dei contrari alla Gronda di Genova, il grillino Roberto Traversi, uno di quelli che più di tutti in questi anni ha combattuto contro la grande bretella che può trasformare l’attuale autostrada che attraversa Genova in una tangenziale urbana, e che dunque può convogliare tutto il traffico merci all’esterno della città, liberandola. “La stupidità ideologica causa povertà, regressione sociale, persino tragedia”, ci ha detto una volta Bucci, che non si lamenta e non recrimina, ma all’ideologia contrappone la burbera filosofia del lavorare, perché è dal lavoro e dall’intrapresa pubblica e privata che passa il rilancio, non soltanto del nord-ovest ma dell’Italia tutta. Costruire, ricostruire, rimodernare.
Oggi Genova ha progetti per 14 miliardi di investimenti nei prossimi cinque anni: il treno veloce per Milano, la metropolitana, il Piano urbano della mobilità sostenibile, il waterfront di Levante, la diga, e poi forse la Gronda. Ma la Gronda è un progetto degli anni Novanta, e invece quando si è cominciato a parlare di alta velocità con Milano c’era ancora Mario Schimberni a capo delle Ferrovie e Claudio Martelli era vicepresidente del Consiglio… Un’infinità di tempo buttato. Adesso queste opere non sono più così facilmente contestabili come prima – ed è proprio questo il non detto (anzi l’indicibile): la modernità forse arriva, soltanto perché Genova ha pagato sulla sua viva carne la tragedia dell’inadeguatezza, della palude, della vecchiaia. Davvero deve crollare un ponte, si deve consumare un lutto nazionale, affinché vengano frenati i tic regressivi? “Da Genova deve partire un messaggio per tutta l’Italia”, ripete Bucci. Genova come metafora, dunque. O Genova come eccezione?