Di Maio rispolvera la linea Minniti per fare ripartire i rimpatri
Arriva il decreto firmato con Lamorgese e Bonafede: tempi più brevi per rispedire in patria chi non è in regola. Ma il principio rischia di avere risultati concreti solo nel caso dei tunisini. E c'è il tema dei diritti umani
Il decreto rimpatri presentato oggi dal governo rossogiallo punta a velocizzare i tempi di verifica delle domande di protezione internazionale presentate dai migranti. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nutre grandi aspettative per il provvedimento interministeriale firmato oggi con il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese (assente alla presentazione del decreto che si è tenuta alla Farnesina) e quello della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Anche se negli ultimi quattordici mesi è stato tutto fermo sui rimpatri, siamo ancora all’anno zero”, ha detto Di Maio con una stoccata al suo predecessore, Enzo Moavero Milanesi. Eppure, la bozza del decreto viaggiava tra i tavoli del Viminale già da diverso tempo, prima ancora del governo gialloverde. Fu l’allora ministro Marco Minniti ad avere l’idea: una lista di paesi considerati sicuri, cioè dove – in linea del tutto generale – non sono note pratiche persecutorie, per cui capovolgere l’onere della prova nel vaglio delle richieste di protezione internazionale, sgravando il lavoro delle varie commissioni territoriali e facilitando così i rigetti. Un metodo che non ha mai trovato l’accordo degli altri ministri, così come accaduto anche durante il primo governo Conte: nel primo decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini si prevedeva appunto l’adozione di una lista di cosiddetti “paesi sicuri”. Lo ha ricordato oggi, con toni polemici nei confronti dei vecchi alleati grillini, anche Nicola Molteni, ex sottosegretario leghista al ministero dell’Interno: "Nessuna novità, Di Maio si prende i meriti della Lega e conferma, nei fatti, che il Movimento cinque stelle aveva boicottato il lavoro del ministro Salvini”, ha commentato.
E così Di Maio e Bonafede hanno illustrato oggi “gli effetti positivi” del decreto rimpatri, risultato di una politica basata sul motto “non urla ma fatti”, come ha spiegato il ministro degli Esteri. Per chi arriverà sulle nostre coste da uno di questi 13 paesi (si tratta di Algeria, Tunisia, Albania, Bosnia, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia e Ucraina) sarà più difficile presentare domanda di protezione internazionale perché spetterà ai singoli richiedenti dimostrare una persecuzione personale. Si passerà, dice il governo, da oltre due anni per valutare una richiesta d’asilo a soli 4 mesi e la spesa prevista sarà di circa 50 milioni di euro. Si tratta di soldi che saranno investiti in progetti di cooperazione con i paesi inseriti nella lista perché, secondo Di Maio, la soluzione definitiva al problema migratorio non sono i ricollocamenti negli altri paesi europei, bensì i rimpatri nei paesi di origine, da concludere sulla base di finanziamenti per progetti per lo sviluppo.
Di certo, l’obiettivo principale del governo è di assestare un colpo deciso agli arrivi dalla Tunisia. E’ dal paese nordafricano che sbarca il maggior numero di migranti, con 2.232 tunisini giunti in Italia dal 1° gennaio del 2019, circa il 28 per cento del totale.
L’efficacia del decreto rimpatri nel caso dei cittadini tunisini è dovuto a una precondizione essenziale: l’esistenza di un accordo di estradizione con Tunisi. Un dettaglio non secondario, che non vale per esempio nel caso dell’Algeria (terzo paese di provenienza per numero di persone sbarcate in Italia, che sono state 780 nel 2019), dove la convenzione firmata nel 2003 non è ancora entrata in vigore. Ed è significativo che i 50 milioni stanziati dal governo non andranno a finanziare i rimpatri, che finora sono andati avanti a singhiozzo: per esempio, in base all’accordo con Tunisi, dovrebbero partire dall’Italia due voli a settimana, per un massimo di 40 tunisini alla volta. Numeri però che nei fatti sono molto più bassi sia per i ritardi nel vaglio delle richieste di protezione internazionale, sia per i problemi incontrati dal governo nel convincere le compagnie aeree a ospitare a bordo i migranti da rimandare in patria.
Il governo punta ora a scoraggiare le partenze, secondo il principio che, se si complica la vita per la presentazione delle richieste di protezione internazionale allora le persone saranno disincentivate a partire verso l’Italia. Ma se da una parte il caso libico – con il blocco dei salvataggi in mare dell’ultimo anno e la guerra alle ong – ha dimostrato che il numero degli sbarchi in Italia non risente delle mosse disincentivanti del governo italiano (a settembre 2019 gli arrivi in Italia sono più che raddoppiati rispetto a settembre 2018), dall’altro c’è il caso del rispetto dei diritti umani. Mario Morcone, direttore del Centro italiano per i rifugiati, ha detto oggi al Sole24 ore che col decreto rimpatri e col capovolgimento dell’onere della prova per la richiesta di protezione internazionale si rischia una “restrizione inaccettabile dei diritti”. Un tema finora molto caro al Pd che, per ora, è rimasto in silenzio e si è astenuto da qualsiasi commento sull’approvazione del decreto.