E’ un relativamente tranquillo lunedì d’inizio governo rossogiallo e su Twitter, improvvisamente, il ministro pd dei Beni Culturali Dario Franceschini lancia parole d’allarme a proposito di un allarme lanciato da altri (precisamente, dagli ex compagni di partito, ora in Italia Viva). Le tasse potrebbero aumentare, dicono i renziani. “Avviso ai naviganti”, scrive Franceschini, “la smania quotidiana di visibilità logora i governi. Già visto tutto. Si inventano litigi sull’Iva, quando nessuno vuole aumentarla, solo per avere qualche riflettore acceso. Il Pd sceglie la serietà e si impegna sul cuneo fiscale per aumentare gli stipendi”. Passano poche ore, e arriva una risposta che sembra alludere, tra le righe, a una trattativa notturna (segreta? non segreta?): “Ciao Dario. A noi non interessa la visibilità: a noi basta non aumentare l’Iva. Stanotte proponevi di aumentare di cinque o addirittura sette miliardi di euro il gettito Iva. Se hai cambiato idea, buon segno!”. A parlare è il quarantenne Luigi Marattin, deputato ex Pd ora in Italia Viva, ex consigliere economico a palazzo Chigi durante i governi Renzi e Gentiloni, ex assessore a Ferrara, ricercatore di Economia Politica a Bologna e veterano, nonostante l’età, dei duelli televisivi con i leghisti Claudio Borghi e Nicola Molteni (e ora più che mai anche animatore, sui social o sugli schermi, da lontano o da vicino, di un acceso dibattito con l’ex vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini). E se Marattin siede sulle poltrone dei talk-show come il caterpillar economico renziano in un quadro di non unanimità tra alleati, c’è stato un giorno in cui, a governo Conte I appena insediato, nel giugno 2018, il suo intervento durante la discussione per la fiducia ai gialloverdi ha fatto applaudire all’unisono – incredibile a dirsi – i futuri fratelli-coltelli Pd ed ex Pd del governo rossogiallo. “Prima domanda, signor presidente”, diceva a Conte l’allora non sconosciuto ma neoeletto Marattin – uno che quando era consigliere di Renzi e Gentiloni veniva chiamato scherzosamente dai cronisti “l’invisibile”, ché poteva confondersi agevolmente, con indosso un piumino grigio come la pietra di Piazza di Pietra, tra la folla di politici e assistenti di politici che alle otto della sera sciama per l’aperitivo, spuntando all’improvviso in questo o quel crocchio, senza però avere l’intenzione di raccontare alcunché delle riunioni riservate nell’entourage “cerchio magico e cerchi limitrofi” cui presenziava in zona Palazzo Chigi e non solo. E però, tra gli osservatori di piani d’azione renziani, più che gentiloniani, c’era chi, alla domanda “che cosa sta succedendo, che cosa succederà?”, rispondeva puntualmente “chiedete a Marattin”.
Ex consigliere nei governi Renzi e Gentiloni, ex assessore a Ferrara, esperto di “diplomazia zero”. Era anche “l’invisibile”
Prima domanda, dunque: e la prima domanda (a Conte) era non a caso sulla flat tax, argomento già sviscerato, tra Pd e Lega, al Nord, negli anni in cui Marattin era assessore a Ferrara – esperienza locale di cui, dopo essere stato eletto a Montecitorio, Marattin stesso un giorno ha detto: “Non ho vissuto quei quattro anni come un autobus per andare a fare altro. Li ho vissuti come mio piccolo contributo a instaurare una mentalità nuova di gestione dei soldi pubblici. Se vedo che la mentalità sta tornando quella di prima, posso dirlo o devo prima avere un’autorizzazione?”. Scontri interni ce n’erano anche sul piano locale: “Quando fui nominato dissi che la prima cosa da fare era abbattere i centosettantasette milioni di debito pubblico del Comune, per smettere di pagare gli interessi alle banche e usarli per i servizi. Quando facevo questo discorso, nel partito dicevano che ero di destra, perché la riduzione del debito era una politica da governo liberale”. E in qualche modo le strade sono tornate oggi a Ferrara, quando, non molti giorni fa, all’indomani della scissione renziana, proprio nella città estense, Marattin ha spiegato, accanto ai colleghi transfughi Ettore Rosato e Maria Elena Boschi (con cui sempre viene visualizzato dagli astanti mentre cammina in Transatlantico), i motivi della scelta pro Italia Viva: “E’ da quando mi sono iscritto al partito a metà degli anni Novanta”, diceva, alludendo all’ex Pci-Pds-Ds poi Pd, “che sento ripetere come un mantra una parola bellissima, ma privata del suo valore: unità. Tutte le volte che nella nostra storia ci siamo ritrovati a discutere di un qualche cambiamento, arrivava qualcuno a dire di non compromettere l’unità. Ma unità rispetto a cosa? Perché è su una visione di società che si crea l’unità, che altrimenti finisce per essere usata solo in astratto per zittire il dissenso”. Fatto sta che tutte le strade portano e riportano anche a Firenze, dove Matteo Renzi dirigerà la prima Leopolda della fase post Pd e dove Marattin, nel 2011 del “big bang” renziano, aveva fatto il discorso per farsi conoscere (e ricordare), indicando il rigore di bilancio come qualcosa non necessariamente di destra, e anzi come punto fondamentale per l’economia della nuova sinistra.
Quando alla Leopolda 2011 parlò di rigore “di sinistra”, e quando dice agli ex compagni “non porgo l’altra guancia”
Ma questa è storia di ieri. Nella storia di oggi, al momento del discorso per la fiducia nel giugno 2018, il neoeletto Marattin era già noto nei palazzi, anche per via dell’abitudine a twittare quello che gli veniva in mente così come gli veniva in mente, e non certo dopo aver vagliato ogni parola con la moderazione tipica dell’esprit anglosassone (due gli incidenti diplomatici online poi chiariti dal deputato: una volta per un tweet rivolto a Nichi Vendola, per cui fu accusato di omofobia, accusa da cui lo scagionarono però anche i nemici, e una volta per un tweet incauto a margine del crollo del Ponte Morandi). “Cosa vuole che le dica”, rispondeva qualche mese fa al cronista de Linkiesta che lo interpellava sul tema “autocontrollo sui social network”: “Ho appena compiuto quarant’anni e dicono che il carattere non cambi più dopo i venti…”. E a venti Marattin faceva tutt’altro ma anche no: nato a Napoli e cresciuto tra Brindisi e Ferrara, era già stato più volte rappresentante di classe e istituto a scuola e studente di discipline economiche all’estero, e si preparava prima a un impiego nella Holding Ferrara Servizi, e poi a quello di ricercatore universitario. Quel lavoro sui conti gli è tornato utile qualche tempo dopo, al Comune, ma ormai la strada politica aveva preso il sopravvento. Tanto che nel suddetto giugno 2018, quando, in teoria tra i “peones”, in realtà già ex consigliere, si rivolge al neo premier Giuseppe Conte, dai banchi del Pd c’è chi lo descrive come un “esperto dell’argomento flat tax. E la flat tax, dice Marattin a Lega e Cinque stelle, è l’“architrave del consenso” che avete chiesto e ottenuto, ma “che cosa vuole dire esattamente, presidente, quando dice ‘introdurremo la flat tax ovvero una riforma fiscale caratterizzata dall’introduzione di aliquote fisse?’”. E partiva da quell’“ovvero” un’offensiva anche lessicale: “Stiamo speculando su una delle ambiguità più divertenti di nostra lingua”, diceva il deputato. Significava un “cioè”, quell’“ovvero”, o significava un “oppure”? Se significava cioè era “una contraddizione”, se significava “oppure” allora “si capiva ancora meno”. “Chiamate le cose con il loro nome”, diceva Marattin, criticando anche la frase “la flat tax inizia dalle imprese”: “Le imprese in questo paese sono sottoposte a flat tax dal 1973”, era il concetto; “intendete forse una società di persone”, ditte individuali, o alludete alle famiglie? “Che senso ha una riforma fiscale che distribuisce vantaggi in senso opposto a quello che sarebbe un sentimento di equità sociale…”? diceva, ma che impatta in modo negativo “anche sui consumi”? E poi, era il punto applaudito dai colleghi, “non si capiscono le coperture”.
E insomma il neodeputato disegnava anche per conto dei non renziani, in quel frangente, all’indirizzo dell’Italia gialloverde, un possibile futuro orrorifico (modello Grecia), per poi lanciare il mantra da studi televisivi: “Lo abbiamo tirato fuori noi dalla recessione il paese… L’impressione è che questi temi economici siano trattati con troppa approssimazione, superficialità, talvolta anche con non-conoscenza”.
La flat tax, l’Iva e la volta in cui, con due domande a Giuseppe Conte, mise d’accordo i futuri fratelli coltelli Pd-ex Pd
Poi però si arriva al 2019, e al cambio di scenario interno ed esterno al Pd. E Marattin – che nel frattempo, oltre a essere migrato con Renzi a Italia Viva, è invitato ogni giorno alle trasmissioni del mattino se non a quelle della sera e della notte, pur andando ancora, dicono gli amici, “a correre e nuotare all’alba e a vedere le partire della Juve” – deve rispondere in continuazione, dentro e fuori dal web, delle inimicizie telematiche (momentanee o meno). Tanto che qualche giorno fa, intervistato da Repubblica, ha risposto di “non essere un bullo” (ogni riferimento alla lite con Franceschini non era casuale) ma di “non porgere l’altra guancia”: “Se mi attaccano replico”. Le poche note di “saggezza”, diceva, vengono dalla fidanzata Gloria, con cui vive non distante (ironia della sorte) dall’abitazione di Pietro Dettori (Casaleggio Associati). Ed è capitato, nei giorni caldi della crisi d’agosto, che, durante il vertice drammatico in cui i Cinque stelle dovevano decidere se aprire o meno al Pd, vertice tenutosi proprio chez Dettori, Marattin comparisse nei paraggi con un gelato, e con aria noncurante fendesse la folla dei cronisti. “Sono un istintivo”, ha detto in altro frangente, ma tutto forse si tiene: “Ma da quando ho conosciuto Gloria ho capito che non sempre bisogna urlare più forte per ottenere un effetto”. E però, non per niente, sul suo sito la frase che campeggia è quella pronunciata nel marzo del 1933 dall’allora presidente americano Franklin Delano Roosevelt: “L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. L’altra frase preferita di Marattin, invece, è stata scritta da Oscar Wilde, e allude al lato positivo dell’irrequietezza: “Ci sono due tragedie in questa vita: una è non ottenere quello che si vuole. E l’altra è ottenerlo”. Fatto sta che, al momento, Marattin ha ottenuto una visibilità anche ufficiale nel nuovo partito (Renzi l’ha chiamato “volto di Italia Viva”). Visibilità acuita dai tweet a diplomazia zero, tipo quello che ieri metteva in scena polemicamente un quiz a scelta multipla: “‘Così com’è il taglio del cuneo fiscale è inutile’. Chi lo ha detto oggi in un’intervista a un quotidiano? A) uno sporco renziano B) un membro dell’opposizione C) un fanatico anti-Pd D) un economista senatore Pd”.
Oscar Wilde e l’irrequietezza, Roosevelt e la paura, la vicinanza di quartiere con Pietro Dettori e la “saggezza” appresa per amore
Intanto, durante una puntata di “Piazzapulita”, su La7, giovedì sera, l’economista Giulio Sapelli, a proposito di taglio dell’Irpef, così commentava gli interventi del vicecapogruppo alla Camera di Italia Viva Marattin: “Sono d’accordissimo, bravo. Ha preso razioni massicce di Acutil”. Ma nessuna piccola guerra o piccola pace può cancellare la presenza, all’orizzonte, per Marattin e non solo, della Leopolda in cui si pensava dovesse scoppiare il caso Renzi, che però è già scoppiato. E Marattin, a poche ore dallo scoppio, ha detto a “Radioradio”: “Se l’avessimo fatto prima della nascita del governo Conte, avrebbero detto che era solo per ottenere più posti nel governo. Se l’avessimo fatto invece tra un anno, avrebbero detto che questo è l’atto d’inizio della fine del governo Conte. Se non si poteva, quindi, fare né prima né dopo, l’unico momento utile era poche ore dopo il giuramento del governo. Un atto che serviva a rafforzare il governo Conte”. In attesa della Lepolda, dunque, e nelle sacche delle accuse (ai renziani) di intendenza con l’ex nemico Di Maio, sul campo resta lo scontro verbale Marattin-Salvini. L’ex ministro dell’Interno e leader della Lega, infatti, ha postato giorni fa un ritaglio di giornale del luglio scorso, con citazione di Marattin: “Sogno un partito che si ponga come obiettivo quello di rimandare i miserabili pagliacci come Luigi Di Maio a fare i ‘bibbitari’ a San Paolo”. E commentava: “Alleati con quelli che fino a luglio erano ‘miserabili pagliacci. Grande dignità umana e solido spessore politico”. Risposta quasi immediata di Marattin: “Il primo miserabile pagliaccio è già andato a casa, sei tu”.
Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.