“Il decreto rimpatri? Vedo propaganda”, dice l'ex prefetto Morcone
“Non solo i rossogialli non toccano i decreti sicurezza, ma addirittura concretizzano le norme volute da Salvini”. Intervista al direttore del Consiglio italiano per i rifugiati
Roma. “Il decreto rimpatri è mera propaganda. Non serve a nulla, anzi è in linea con la politica degli annunci degli ultimi mesi”. La tocca piano il prefetto Mario Morcone, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, già capo gabinetto del ministro dell’Interno Marco Minniti. Gli facciamo notare che il decreto in questione porta in calce le firme del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, del Guardasigilli Alfonso Bonafede e della titolare del Viminale Luciana Lamorgese, pure lei prefetto, dunque un tecnico.
“La conosco: è una donna esperta, perciò sa benissimo che quel decreto, privo di effetti, risponde unicamente a un’esigenza di propaganda. Probabilmente avrà dovuto firmarlo, si sarà confrontata con Palazzo Chigi e con il Quirinale… Poteva forse far cadere il governo su questo?”. Il premier Giuseppe Conte aveva promesso le modifiche ai due decreti sicurezza nel primo Cdm. Non se n’è fatto nulla. “Non solo non toccano i decreti – rincara Morcone – ma danno persino concretezza attuativa alle norme volute dall’ex ministro Matteo Salvini. Una follia”.
Di Maio ha annunciato che i tempi per l’esame delle richieste si accorceranno da due anni a quattro mesi. “Non è chiaro come ciò avverrà. Colpisce invece l’inversione dell’onere della prova per i migranti provenienti da tredici paesi ritenuti sicuri dall’Italia: toccherà a loro dimostrare di essere in pericolo in patria. Siamo alla farsa: io arrivo a Pozzallo e devo provare che il mio paese di provenienza è insicuro, a differenza di ciò che sostiene il ministero degli Esteri italiano. Peraltro, è una novità impraticabile in assenza di accordi di riammissione: se il paese d’origine non ti riconosce, non ti fa scendere dall’aereo”.
Morcone si occupa di immigrazione dal 2007 quando fu nominato capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato, poi confermato dal successore Roberto Maroni. “C’è un grande equivoco: i circa 5 mila rimpatri forzati eseguiti dal governo italiano ogni anno, quelli sbandierati come un’esigenza insopprimibile, sono in linea con paesi come Francia e Germania. Il sentiero ancora troppo poco battuto, invece, è quello dei rimpatri volontari assistiti, finanziati peraltro dall’Ue”. Tra il 2017 e il 2018, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ne ha eseguiti circa 25 mila dalla Libia. L’Italia, con l’allora ministro Minniti, ha dato un contributo importante. “E’ stata un’operazione di successo, non capisco perché non si possa proseguire su questa strada. Molta gente, africana e anche sudamericana, è venuta qui mossa dalla grande illusione di inserirsi in Europa; oggi è insoddisfatta e tornerebbe volentieri nel paese d’origine”.
L’Italia ha siglato accordi con Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria. I risultati però sono modesti. “Il primo è quello che funziona meglio: si organizzano due viaggi a settimana, su voli charter, con quaranta persone per volta. Negli altri casi invece si muovono piccoli numeri e su voli di linea. Il ritorno di queste persone ha un impatto politico nei paesi d’origine. Per i governi africani riprendersi cittadini espulsi all’estero comporta un problema di fronte alle opinioni pubbliche nazionali, senza trascurare il fatto che riammettendoli rinunciano alle relative rimesse”.
A proposito dei messaggi che si mandano: a settembre gli sbarchi sono triplicati. “Quando ero al ministero con Maroni, la pressione migratoria salì fino a 25 mila arrivi in un anno. Adesso si solleva un polverone per 7mila persone che si assorbono facilmente su una popolazione di sessanta milioni di cittadini”. Il punto è un altro: 947 sbarchi nel settembre 2018; 2.500 sbarchi nel settembre 2019, quasi il triplo. Che succede? “Magari negli scorsi giorni il mare era più favorevole ma il discorso è un altro. Qualche giorno fa, Matteo Salvini ha pubblicato la circolare del Viminale che dispone la redistribuzione di trenta migranti in provincia di Ancona, trenta ad Avellino e trenta a Terni. Dov’è lo scandalo?”.
Lei sa bene che l’arrivo di decine di persone, perlopiù maschi e in età adulta, che non parlano la lingua e non lavorano, può diventare fattore di insicurezza per la comunità locale. “E’ vero, ma va pure notato che questa paura verso lo straniero è montata perché qualcuno l’ha strumentalizzata a fini politici, con l’aiuto di trasmissioni televisive ossessive. Noi, quando eravamo al ministero, abbiamo attenuato l’impatto sociale grazie al piano di accoglienza diffusa e a una distribuzione commisurata alla popolosità delle realtà territoriali”. Di Maio ha ridimensionato l’entusiasmo del premier Conte affermando che la redistribuzione “può avere l’effetto di pull factor sulle partenze”.
Parla il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, veterano del Viminale: “Lamorgese? Donna esperta, per questo sa bene che il decreto voluto
da Di Maio è privo di effetti”. Gli sbarchi aumentano? “Sì, ma la lotta
al traffico non si può combattere sulla pelle delle persone
solo per dimostrare che siamo forti e cattivi”
“Invece essa è fondamentale per creare una strategia europea. L’immigrazione non si ferma: è un fenomeno strutturale. Chi racconta il contrario dice il falso. Serve una politica europea comune: siamo riusciti a realizzarla in materia di asilo, adesso tocca alla gestione dei flussi, che non può restare una prerogativa esclusivamente nazionale”. La bozza dell’accordo di Malta, che disegna una possibile cooperazione rafforzata, ha più ombre che luci. “E’ un negoziato lungo e faticoso: va superata la strettoia dell’unanimità per andare avanti con chi ci sta. E’ un primo passo importante per lasciarci alle spalle il Regolamento di Dublino: la novità più rilevante è che le richieste dei migranti e gli eventuali rimpatri saranno gestiti dai paesi di destinazione. In altre parole, i migranti vengono trasferiti altrove prima di stabilire se siano o meno titolari del diritto alla protezione internazionale”.
L’accordo riguarda solo i migranti che arrivano via ong e navi militari, meno del 10 per cento del totale. “Eh, lo so”. Prefetto Morcone, a suo giudizio, la maggiore propensione governativa all’accoglienza può incentivare le partenze? “Può incidere, certo, ma resto dell’idea che la lotta al traffico non si possa combattere sulla pelle delle persone. Non possiamo permettere che la gente affoghi nel Mediterraneo per dimostrare che siamo forti e cattivi. Con il peso economico e politico dell’Europa unita dobbiamo convincere i paesi africani a collaborare fattivamente contro i trafficanti”.
La stessa Europa che ha elargito sei miliardi alla Turchia di Erdogan riserva pochi spiccioli allo sviluppo africano. “Nel 2015, per fronteggiare la pressione migratoria sulla rotta balcanica, ha prevalso la posizione della Germania. Dopo però il governo di Angela Merkel ha mostrato maggiore solidarietà, forse per un senso di colpa. Negli ultimi quattordici mesi invece Salvini ha brandito la sofferenza come un’arma per ridurre gli sbarchi, ha diminuito l’assistenza nei centri di accoglienza, ha ridotto gli spazi dello Sprar”. Ieri si è consumato l’ennesimo naufragio al largo di Lampedusa e nessuno conosce la cifra esatta delle persone scomparse in questi anni: il mare è un cimitero silente. Lo slogan salviniano “meno partenze meno morti” ha un senso? “Non mi voglio imbarcare nella polemica, io dico che non si fermano gli sbarchi mettendo a rischio la vita delle persone. Bisogna trovare la strada per trattare con i paesi di partenza dove i trafficanti costruiscono la loro rete criminale. E poi servono canali d’ingresso regolari: è normale che non si possa venire a lavorare nel nostro paese? Vanno fissate delle quote in base alle esigenze del mercato del lavoro. L’ultima ‘emersione’ risale al governo Monti nel 2013”.
Il quotidiano Avvenire ha documentato la partecipazione, nel maggio 2017, del libico “Bija”, già signore del traffico di esseri umani e ufficiale della Guardia costiera libica, a una visita ai Cara di Mineo e Pozzallo sotto l’ombrello dell’Oim. “Non conosco i criteri in base ai quali furono composte le delegazioni, non so neanche di chi fosse la competenza né se gli organi di polizia, all’epoca, conoscessero i precedenti di questa persona”. Stando all’inchiesta giornalistica, erano presenti alcuni 007 italiani. “Com’è noto, la delega ai servizi era in capo all’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Al Viminale, con il ministro Minniti, tenevamo i contatti con le istituzioni libiche: con il governo Serraj e con i sindaci delle città libiche, soprattutto meridionali, dove diversi progetti in ambito sanitario, ambientale, educativo sono stati avviati anche grazie alla presenza rafforzata dell’Oim e dell’Unhcr”.