Sono le crepe interne a Pd e M5s che fanno tremare il Conte bis
La sconfitta in Umbria potrebbe generare altra confusione all'interno dei due grandi partiti sconfitti. In attesa della grande sfida della prossima primavera alle Regionali
Smentendo clamorosamente i sondaggi della vigilia, che davano testa a testa i due candidati alla presidenza dell’Umbria, l’elettorato ha scelto con grande nettezza il centrodestra a trazione leghista. Non è un dato nazionale, come dice la maggioranza parlamentare, o è destinato a influenzare negativamente la sorte del governo, come dice Matteo Salvini? Dipende da come gli sconfitti interpreteranno il risultato: sono stati loro a costruire in fretta e furia una alleanza locale “civica” con l’intenzione più o meno esplicita di presentare un accordo politico difensivo e di emergenza come una coalizione politica, e ora devono fare i conti con il fallimento di quel progetto, peraltro appena abbozzato.
Per ora le reazioni sono piuttosto deludenti, tutte rivolte all’interno dei partiti: Luigi Di Maio rimpiange un Movimento 5 stelle senza alleati, Nicola Zingaretti dà la colpa all’eredità di Matteo Renzi. Quando avranno avuto il tempo di riflettere si renderanno conto che non esiste un blocco sociale che possa essere interpretato e rappresentato da un’eventuale alleanza tra Pd e 5 stelle, mentre c’è una funzione difensiva ed europeista che una coalizione parlamentare di questo tipo può esercitare utilmente. Non è il governo a essere messo in discussione dal voto umbro, per evidenti ragioni istituzionali e anche numeriche, ma le leadership dei partiti che lo sostengono.
Il problema elettoralmente più rilevante lo ha Di Maio, che registra ancora una volta l’irrilevanza elettorale della sua proposta regionale, ma il Movimento 5 stelle non può ragionevolmente pensare a un radicamento territoriale anche per la sua struttura interna. Per il Pd, che ha una lunghissima tradizione di presenze territoriali e di amministrazioni locali, il problema è più complesso. Il fatto che delle 11 regioni che sono andate al voto il centrodestra ne abbia conquistate 10 (con l’eccezione del Lazio dove i voti del centrodestra erano divisi tra due candidati, che insieme hanno comunque ottenuto la maggioranza) è un segnale serio, soprattutto in attesa di una serie di votazioni cruciali in primavera. Il ceto amministrativo è una parte determinante della classe dirigente del Pd e rappresenta anche un elemento decisivo nel rapporto con l’elettorato. Zingaretti lamenta gli effetti delle emorragie determinate da scissioni e abbandoni, ma questo è un fenomeno politico che è la conseguenza di una incapacità, al di là persino delle intenzioni, di esercitare una leadership inclusiva.
I capi dei partiti sono indotti a pensare che la funzione del governo sia quella di favorire il loro ruolo, che ovviamente si indebolisce per effetto di sonore sconfitte elettorali. Sono quindi tentati di presentare il conto al premier Giuseppe Conte, che è stato costretto controvoglia a partecipare alla foto di gruppo a sostegno del candidato “civico”, che a sua volta spiegava che se avesse vinto sarebbe stato merito suo, se avesse perso sarebbe stata colpa dei partiti che lo hanno sostenuto. E’ per la complessa dinamica interna ai partiti che il governo rischia, non per un effetto diretto delle elezioni regionali.
Per Salvini, al di là delle dichiarazioni, non è ancora il momento della spallata: sa che gli conviene capitalizzare il consenso consolidandolo nelle elezioni regionali di primavera, utilizzando le incertezze con cui la maggioranza sta gestendo la difficile partita delle leggi di Bilancio. D’altra parte ha bisogno di tempo per operare le correzioni indispensabili sul suo tallone d’Achille, la politica internazionale ed europea, magari in attesa di qualche cambiamento rilevante nella struttura degli esecutivi in Germania, Francia e Spagna. Per ora può limitarsi a giocare di rimessa, recuperando, com’è avvenuto in Umbria, il calo di consensi che aveva seguito la rottura agostana dell’intesa con i 5 stelle. Nell’immediato futuro non verranno dalle opposizioni le principali insidie per l’esecutivo, ma dalla fragilità delle leadership dei partiti che lo sostengono, che forse punteranno a cambiare cavallo a Palazzo Chigi, in modo da dare ad altri la responsabilità dei problemi che non riescono ad affrontare, come si faceva nella Prima Repubblica, quando però i partiti erano ben altrimenti solidi.