Il reddito di cittadinanza è una zucca vuota
Per Di Maio era “l’abolizione della povertà”. Per il premier Conte uno strumento con cui i “cittadini possono riscrivere il proprio futuro”. Storia in tre mosse di un flop colossale. Di cui non si parla manco più
Quando lo scorso gennaio è stato presentato dal governo agli italiani attraverso una specie di convention, in cui sono intervenuti Lino Banfi e il capo dell’azienda-partito Davide Casaleggio, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio descrisse il Reddito di cittadinanza come “non un semplice sussidio, ma una rivoluzione del mondo del lavoro”. L’allora vicepremier aveva già annunciato l’“abolizione della povertà”, ma specificava che “è uno strumento di politica attiva del lavoro, non solo di erogazione di un sussidio”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo presentò come uno strumento “volto a incrementare l’offerta di lavoro” attraverso cui i “cittadini possono riscrivere il proprio futuro”: “Io sarò garante dell’attuazione di questo patto”, disse Conte. Per fare una valutazione del reddito di cittadinanza bisogna ricordare quali erano gli obiettivi annunciati. Essenzialmente tre: riduzione della povertà; riattivazione del mercato del lavoro e aumento dell’occupazione; aumento del tasso di crescita economica.
Lotta alla povertà
Il contrasto alla povertà – o meglio, la sua abolizione – era l’obiettivo primario, sia in ordine di importanza sia a livello temporale, del reddito di cittadinanza. La platea destinataria del sussidio era vasta: “Circa 5 milioni di persone potranno guardare al futuro con speranza”, diceva Luigi Di Maio. E il beneficio sostanzioso: “Chi oggi non ha nulla avrà almeno 780 euro; una famiglia che non ha nulla, avrà almeno 1.300 euro” al mese, diceva sempre Di Maio. I dati dell’Inps, aggiornati all’8 ottobre, danno un quadro diverso. Su 1,5 milioni di domande, solo due terzi sono state accolte: 982 mila nuclei familiari (di cui 39 mila hanno perso il beneficio), per un totale di 2,2 milioni di persone coinvolte. Meno della metà della platea di 5 milioni di poveri inizialmente indicata.
L’importo medio è di circa 480 euro, inferiore ai 780 che in tanti si aspettavano, e la quota di famiglie numerose che prende più di 1.200 euro è dello 0,5 per cento. E questi dati mostrano alcuni limiti genetici della misura. Infatti, pur di mantenere la promessa simbolica di dare 780 euro mensili ai single (una somma molto elevata), per poter allo stesso tempo contenere i costi, il governo gialloverde ha strada facendo deciso di penalizzare le famiglie numerose, ovvero quelle dove l’incidenza della povertà è maggiore. Di conseguenza: che una famiglia abbia quattro, cinque o sei figli non può mai ricevere più di 2,2 volte di quanto percepisce un single. A questa distorsione della scala di equivalenza, si aggiunge la discriminazione, ignorata un po’ da tutti, delle famiglie extracomunitarie.
Gli immigrati sono la categoria sociale più povera, e pertanto quella a cui la misura dovrebbe essere rivolta. Ma non solo il reddito di cittadinanza prevede un requisito temporale notevole, 10 anni di residenza, ma pone anche enormi ostacoli burocratici che rendono praticamente impossibile accedere al sussidio (un po’ come avviene in alcuni comuni leghisti per impedire l’accesso alla mensa gratuita per i figli degli immigrati). Così, al momento, ci sono circa 38 mila famiglie extracomunitarie le cui domande sono state accolte, ma che non ricevono il sussidio perché manca un decreto attuativo che li esoneri dall’obbligo di presentare una documentazione che è impossibile produrre. “Bisogna subito togliere questi limiti vessatori e un po’ razzisti che impediscono di accedere al reddito a 90 mila stranieri che, fino a prova contraria, sono davvero poveri”, dice al Foglio il dem Marco Leonardi, già consigliere economico dei governi Renzi e Gentiloni.
Politiche attive
Altro che assistenzialismo, la riattivazione doveva essere il fiore all’occhiello del reddito di cittadinanza: “Mi hanno preso in giro sui navigator – diceva Di Maio –, ma quando nei prossimi mesi faremo 10 mila assunzioni si riderà di meno”. E Mimmo Parisi, il professore venuto dal Mississippi per guidare l’Anpal, spiegava così la sua invenzione: “Il navigator aiuta a superare gli ostacoli”. Al momento le regioni hanno convocato 250 mila beneficiari, effettuato 100 mila colloqui e sottoscritto 70 mila patti per il lavoro. “Abbiamo sempre detto che il percorso era complicato, ci sono progressi, ma è stato un errore alimentare aspettative così alte”, dice al Foglio l’assessore al Lavoro della Toscana Cristina Grieco che coordina la Conferenza delle regioni sul tema. Il problema è che nonostante questo sforzo di immissione di dati e di contatto con le persone, la “fase 2” del Rdc, quella che riguarda la riattivazione, è al palo. Manca la procedura informatica – Inps e Anpal sono al lavoro – che serve alle imprese per ottenere il bonus previsto in caso di assunzione di un beneficiario di Rdc. Manca la norma per far partire le ore obbligatorie di lavori sociali nei comuni. Non è ancora completata l’integrazione dei sistemi informativi tra Centri per l’impiego e Anpal. I navigator non sono 10 mila ma 3 mila e non svolgeranno la funzione per cui erano stati immaginati, perché faranno semplice supporto tecnico nei Centri per l’impiego. E per adesso sono in formazione, stanno cioè imparando un lavoro che – da contratto – terminerà tra 1 anno e mezzo. Inoltre non esiste la miracolosa app parisiana del Mississippi che, una volta installata sugli smartphone dei navigator, dovrebbe far trovare posti di lavoro che non esistono a persone che non lo cercano. Perché uno dei problemi del Rdc è proprio il suo meccanismo disincentivante, che spinge verso il lavoro nero. “E’ stato un processo di corruzione di massa – ha dichiarato il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca –. In troppe occasioni il reddito di cittadinanza è servito a pagare la manovalanza della camorra, a far scansare il lavoro stagionale, a incentivare il doppio lavoro”. La Campania è la regione con il maggior numero di percettori di Rdc e quella che, senza navigator (De Luca li ha rifiutati), dopo la Sicilia ha fatto più colloqui e sottoscritto più patti.
Impatto macroeconomico
Anche dal punto di vista macroeconomico si prevedevano effetti stupefacenti: un moltiplicatore superiore a 1, ovvero un effetto sulla crescita superiore alla somma spesa. L’altro effetto annunciato era uno choc al mercato del lavoro. “Con il reddito di cittadinanza facciamo un balzo verso il futuro”, diceva il presidente dell’Inps Pasquale Tridico evocando Mao Zedong. Durante la presentazione del Rdc, dopo aver evocato Martin Luther King, Amartya Sen e Papa Francesco, l’allora consigliere di Di Maio profetizzava: “Attraverso il reddito di cittadinanza gli inattivi diventeranno attivi”. Secondo le previsioni di Tridico, il Rdc avrebbe “attivato” 1 milione di inattivi, creando anche – attraverso una sua singolare teoria – uno spazio fiscale di 12 miliardi (il doppio della spesa del Rdc) da poter spendere in deficit senza violare le regole europee. Nulla di tutto questo è avvenuto: il moltiplicatore è stato prossimo allo zero (con un impatto quasi nullo sul pil, sia reale che potenziale) e non c’è stato alcuno choc sulla partecipazione al mercato del lavoro. Dopo annunci trionfalistici e presentazione in pompa magna, non si parla più di Rdc. Forse è il caso rivedere cosa non va.