L'ambientalismo tossico che avvelena l'accordo tra Pd e M5s
Dai rifiuti all’ideologia. Perché il cortocircuito più pericoloso nella maggioranza rossogialla è la convergenza sui temi ambientali
Negli ultimi mesi, l’Italia ha avuto l’occasione di osservare molto da vicino un fenomeno politico che potremmo tentare di descrivere con una formula sintetica che grosso modo potrebbe suonare così: la reversibilità del populismo. Abbiamo visto che su molti temi, non tutti ovviamente, le istanze populiste hanno dovuto drammaticamente fare i conti con la realtà e in un certo senso l’esperienza del governo del cambiamento ha contribuito a mettere i leader dei partiti antisistema di fronte a una realtà che ha imposto loro una serie di trasformazioni mica da poco. Dall’euro (non più reversibile), all’Europa (non più demoniaca), al Parlamento (non più da aprire come una scatoletta di tonno), alla Russia (non più importante dell’America), fino alla nostra appartenenza alla Nato (non più da rinegoziare).
L’ondata di populismo vissuta dall’Italia è stata finora uno stress test sui nostri valori non negoziabili e su alcuni temi ha permesso di infilare in un cassetto della storia i sogni incompatibili con la realtà. Rispetto al 4 marzo 2018, dunque, l’Italia, per quanto possa sembrare difficile da accettare, è un paese in cui i rigurgiti antisistema hanno iniziato a far poca presa anche all’interno dei partiti antisistema. C’è però un tema sul quale il governo rossogiallo potrebbe smentire questo trend e contribuire a rinfocolare una pericolosa forma di populismo. Quel tema non è legato alla giustizia – perché per quanto il Pd possa provare a farsi valere, l’abolizione della prescrizione a partire dal 1° gennaio del 2020 è una legge votata dalla precedente maggioranza di governo – ma è legato all’ambientalismo cialtrone (da cui derivano le battaglie contro l’Ilva, che un pezzo di M5s vorrebbe chiudere, da cui derivavano le battaglie contro il Tap, che un pezzo di M5s avrebbe voluto non costruire, da cui derivavano le battaglie contro la Tav, che il M5s ha fatto sbloccare ad altri partiti non potendosi permettere di tradire del tutto la sua politica del Nimby) e nei primi cinquanta giorni di governo ci sono alcuni segnali significativi che vale la pena non sottovalutare e che indicano che su questo fronte la sintonia tra Pd e M5s potrebbe produrre presto dei mostri.
Il primo segnale ignorato dai più è quello che è arrivato dall’Umbria dove il candidato scelto da Pd e M5s, Vincenzo Bianconi, nel corso della sua breve campagna elettorale, non ha avuto difficoltà a dire che i partiti che lo sostenevano erano entrambi favorevoli all’idea di non costruire termovalorizzatori in Umbria. La battaglia contro i termovalorizzatori è una storica battaglia del M5s – ma non del Pd – ma il Partito democratico ha accettato senza colpo ferire di essere rappresentato al governo da un ministro di nome Sergio Costa convinto che costruire termovalorizzatori sia “folle e irresponsabile”. La sintonia su questo tema tra il M5s e il nuovo Pd sta producendo un cortocircuito che riguarda il presente e un altro che invece potrebbe riguardare il futuro. Il cortocircuito relativo al presente ha a che fare con Roma la cui monnezza non riesce a essere smaltita come sarebbe lecito attendersi dalla Capitale di un paese appartenente al G7 anche a causa della non volontà dell’amministrazione comunale di costruire termovalorizzatori (i romani pagano circa 670 milioni di euro all’anno di Tari, tassa sui rifiuti, di questi 350 milioni di euro se ne vanno in costi per il personale e 200 milioni se ne vanno per allontanare i rifiuti e portarli in impianti che esistono in quasi tutta Italia e che Roma ha scelto di non avere).
Il problema è che il Pd, scegliendo di condividere l’ideologia ambientalista del M5s, ha rinunciato sostanzialmente a combattere su uno snodo cruciale la battaglia per una maggiore efficienza della Capitale, regalando alla Lega, come successo in Umbria, la bandiera della battaglia della rivoluzione della raccolta dei rifiuti, e creando così le condizioni che consentano di sostenere in futuro quella che potrebbe essere una candidatura capace di rimettere insieme alle prossime regionali il Pd di Nicola Zingaretti e il M5s di Luigi Di Maio: il sostegno al ministro Sergio Costa, campione dell’ambientalismo in formato immobilismo, come prossimo governatore di una Campania de-deluchizzata.
La sintonia tossica tra Pd e M5s, poi, sui temi dell’ambientalismo, la si è vista anche pochi giorni fa, ancora a Roma, quando il ministro Costa, sempre lui, ha rivendicato quella che il ministro dell’Ambiente ha considerato una grande vittoria: “Abbiamo fermato l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Sarebbe stata l’ennesima speculazione di cemento in un territorio già martoriato. Per me questa è una vittoria”.
Costa si riferisce al fatto che la commissione tecnica Via/Vas del ministero dell’Ambiente, pochi giorni fa, ha bocciato il progetto di ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino (per la gioia del sindaco di Fiumicino, del Pd) presentato da Enac e Adr, ritenendolo incompatibile con la riserva naturale sulla quale dovrebbe sorgere. Il ministro non sa che contestualmente la stessa commissione Via ha lasciato aperta la possibilità di presentare un nuovo progetto (che si farà) ma ciò che conta è che il ministro dell’Ambiente del governo italiano ha scelto di mettere una bandierina sulla capacità (per fortuna solo a parole) di fermare opere che anche un bambino capirebbe facilmente essere strategiche (il traffico aereo mondiale cresce costantemente del 4 per cento, Fiumicino cresce da dieci anni del 3,5 per cento e per evitare che quote rilevanti di traffico aereo se ne vadano a Parigi, Francoforte e Istanbul, piuttosto che venire in Italia, il governo italiano dovrebbe avere tutto l’interesse a non ostacolare il rafforzamento del principale scalo del nostro paese).
Sono due piccole storie che ci permettono però di ricordare che il filo conduttore dell’ambientalismo un po’ cialtrone è sempre lo stesso: la difesa dello status quo, la paura dello sviluppo, la demonizzazione della scienza, l’immobilismo come unica forma di legalità consentita, l’ideologia verde utilizzata come una maschera per nascondere l’ennesima forma di tassazione occulta (nella manovra, come si è visto, si è discusso molto di plastic free, di tassa sulla plastica, mentre molti dei parlamentari che stavano studiando il provvedimento probabilmente smanettavano sul proprio telefono di plastica, o usavano il proprio pc di plastica, o indossavano i propri occhiali di plastica o i propri vestiti con fibre sintetiche. Pochi però hanno ricordato che in Italia il gettito complessivo delle tasse ambientali è pari al 3,5 per cento del pil, contro l’1,86 per cento della Germania e il 2,23 per cento della Francia e una media europea del 2,44 per cento, e i gilet gialli a Parigi dovrebbero ricordarci che chi di tassa sull’ambiente ferisce di tassa sull’ambiente perisce).
Non tutto il populismo scommette sull’ambientalismo un po’ cialtrone – la Lega è per i termovalorizzatori, per esempio, ma un partito che gioca con l’euro può essere credibile quando prova a scommettere sullo sviluppo di un paese? – ma ciò che la sintesi pericolosa al governo tra ambientalismi all’amatriciana dovrebbe illuminare è che il vero partito che manca in Italia è quello capace di trasformare il verde dell’ambientalismo in un simbolo di speranza e di sviluppo e non in un simbolo di paura e di terrore. Lo spazio c’è – anche grazie al Pd che ha scelto di non investire su quello spazio – e il primo che lo capirà in Italia avrà la possibilità di fare bingo dando una mano a rottamare quella che forse è una delle più pericolose forme di populismo presenti nel nostro paese: l’ambientalismo tossico, che in Italia, come giustamente segnalato anche da Lorenzo Jovanotti, “è ormai più inquinato della fogna di Nuova Delhi”.