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Il senso di colpa per Libia o Siria non ha senso

Giuliano Ferrara

Conta la responsabilità internazionale di non aver trovato un modo di governare l’inferno

Ci preoccupa, ci mette in allarme, ci angustia, ci tormenta il fatto che migliaia e migliaia di povericristi si mettano in viaggio dall’Africa subsahariana per salvarsi con le loro donne e i loro bambini? E che arrivati nell’imbuto libico, a due passi marittimi dall’Italia europea, invece di incontrare uno stato con regole accettabili e internazionalmente garantite, e non che la Libia di Gheddafi lo fosse, stabilità a parte, finiscano in una spietata guerra civile di natura tribale, che è il risultato di una folle impresa neocoloniale mascherata da umanitarismo, alla quale in tanti da Sarkozy a D’Alema al riluttante Obama hanno contribuito? Ci addolora vederli fotografati e sentirli raccontati nella vita dei lager? La risposta è sì.

 

Esistono i sentimenti e i sentimenti morali, vengono da un cuore di cui nessuno ha il monopolio. Ci fa orrore che da parte nostra, di noi europei, si diano quattrini a poteri tribali in guerra o al despota turco Erdogan per ammassare, controllare in condizioni disperate, eventualmente deportare i profughi siriani nel Rojava già curdo a mezzo di una guerra? Ci riguarda e inquieta il fatto che i mozzorecchi e i tagliagole jihadisti, arabi, ceceni, europei, siano tenuti, feriti, affamati, disumanizzati all’estremo, e morenti in larga parte, in spaventosi campi di detenzione curdi, un taglione tragico dopo una guerra spietata e le decapitazioni e gli stupri e le violenze sistematiche e le pulizie etnico-religiose ancora non finite? Ci sembra un azzardo morale assurdo, disgustoso, che il controllo delle frontiere marittime mediterranee preveda compromessi con autorità che si confondono con lo schiavismo? O che ci si debba accordare con gli assadisti dopo una lunga guerra di sterminio e distruzione del popolo e della nazione siriana? Anche qui la risposta è sì.

 

Si riparla di sacrifici umani, di contabilità etica impossibile, ne fermi due e ne annega uno, e ci si chiede se tutto è cominciato con il ministro Minniti o con il ministro Salvini, o forse era una sola linea, il realismo e il pragmatismo, a parte la retorica e altri squallori dell’esibizionismo nazipop. Ora c’è un altro governo, e pattuglie di vigilanti benintenzionati gli chiedono conto di tutto: partecipate forse a uno scambio energia-immigrazione, vi state sporcando di nuovo le mani con il petrolio, questo idolo del male che ci trasporta di qui e di là nella vita ordinaria e corrompe le nostre anime, e davvero pensate di poter stipulare accordi con poteri tribali incuranti delle garanzie dell’Onu, e nemici della buona volontà delle ong? Non so: di tutto si deve potere chiedere conto e di tutto si deve dare spiegazione, è la legge della democrazia liberale anche nelle situazioni più ambigue. Ricordo le discussioni politiche e giuridiche e etiche americane dei tempi della reazione all’11 settembre e della guerra in Afghanistan e in Iraq, e francamente penso a Guantánamo, icona tragica di un periodo altrettanto difficile di quello attuale se non di più, come un miraggio di equilibrio giuridico e politico e militare. Quella stagione di guerra occidentale ebbe un senso dichiarato, si voleva rifare la mappa del medio oriente in nome di un’idea regolativa di libertà, alla fine risultò effimera, contraria agli istinti di appeasement pacifista dell’opinione occidentale, e terminò con l’abbandono, il ritiro, la dismissione e la catastrofe di cui l’epoca presente è figlia. Sono discussioni e analisi che dureranno ancora per decenni.

 

Nel frattempo ho due sole certezze. La prima è che non mi sento in colpa per i lager, per la disintegrazione tribale o dispotica di territori o regimi ex coloniali che vivono un infinito inverno, al caldo, e non conoscono primavere. Non mi sento in colpa della morte per acqua di tante persone, e nemmeno nei momenti più duri e feroci di polemica con chi trucemente contava sulla dissuasione della morte e del rifiuto per realizzare scopi politici, ben mascherati o protetti dall’interesse nazionale, ho attribuito ad altri che a un atroce destino storico questa colpa. Accusare e accusarsi di far morire la gente è un modo, e non dei più sensati o moralmente impeccabili, anzi dei più vili, di sopravvivere al disastro dei nostri giorni. Sento soltanto la responsabilità politica di non aver trovato, parlo della comunità internazionale e delle sue leadership, un modo accettabile di governare l’inferno. Ma è un’altra cosa dal senso di colpa.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.