Il Pd pensava di aver fatto un governo con Di Maio e si ritrova Dibba
La debolezza di Giggino che pone veti, il non-partito di Conte e l’ombra Di Battista. I dem nel labirinto degli specchi deformanti
Roma. Ivan Scalfarotto, alla lettura dell’ennesimo bellicoso lancio d’agenzia del suo ministro, allarga le braccia: “Già è stato difficile fare un governo con Di Maio. Se ora dobbiamo farlo con Di Battista…”. E la frase resta lì, sospesa a mezz’aria, un po’ come le deleghe che il capo della Farnesina si ostina a rimandare. Ma fosse solo lì, il problema, vabbè. E invece per almeno un mese il rinnovo dei vertici di Invitalia, su cui il ministro Stefano Patuanelli e Giuseppe Conte avevano trovato un’intesa di massima insieme al Pd, è rimasto bloccato dall’ostruzionismo che Di Maio faceva in Cdm, per un accordo che considerava apparecchiato alle sue spalle, e su cui solo ora che è stato direttamente coinvolto si accinge a dare la sua benedizione. E lo stesso, del resto, vale per le nomine Rai: dove il sospettato era invece Vincenzo Spadafora, quel suo rapporto troppo stretto con Dario Franceschini che al capo politico del M5s non piace granché: e allora niente, salta tutto.
C’è insomma quest’ansia di sentirsi scavalcato, marginalizzato, dietro al rinnovato piglio battagliero di Di Maio: c’è la voglia di ribadire che è con lui che si deve trattare, con lui che si deve fare i conti. E poi, soprattutto, c’è l’adrenalina instillata nella mente del leader dalla perenne opera di autoesaltazione condotta dal suo staff di comunicazione, dai fedelissimi Augusto Rubei e Pietro Dettori, che ogni giorno gli ricordano che “il capo sei tu”, che “nessuno alla tua età è arrivato tanto in alto”, e alimentano, insieme alle ambizioni, pure i risentimenti: una sorta di caccia ai fantasmi che fa apparire agli occhi del capo tutti i colleghi come potenziali oppositori. Compreso il premier, che in questa guerriglia fratricida è il principale obiettivo, come sa chi gli sta vicino e ha imparato a ricondurre proprio ai piani alti della Farnesina certe indiscrezioni malevole, certe veline sulle note spese di Palazzo Chigi, e perfino qualche mancato sostegno – “Per non dire altro” – sulla vicenda più delicata di tutte: quella che riguarda il caso Mifsud. E d’altronde, in questa battaglia interna tra spin doctor, qualche ministro del M5s si lascia sfuggire che la sfida è impari: perché, mentre lo staff di Di Maio è una falange compatta a protezione del suo presunto Alessandro Magno, il premier è circondato da chi, come Rocco Casalino, i contatti con l’avversario interno non li ha mica recisi, e se non lo auspica quantomeno lo mette in conto un possibile precipitare degli eventi, e insomma tiene il piede in due scarpe e “non escludo di ricandidarmi”, come lo stesso ex gieffino ha detto a “Sette”.
La riscoperta del lessico sovranista, da parte di Di Maio, è quindi una conseguenza di questo atteggiamento muscolare, più che un effettivo rimpianto per l’alleanza con Matteo Salvini (anche se a Palazzo Chigi ormai lo chiamano “il vedovo”). Lo si capisce anche intercettando gli ordini che Dettori ha diramato ai parlamentari (“Fate post contro la Meloni”) dopo che, all’indomani della disfatta umbra, un dossier finito sulla scrivania di Di Maio ha evidenziato l’emorragia di voti a destra. E insomma Beppe Grillo può anche averlo messo in chiaro, che l’alleanza col Pd non si discute, può anche avergli posto la fedeltà al governo come unica condizione per lasciargli (per ora) lo scettro del capo, ma Di Maio a virare a sinistra, mentre il sentiment del paese va a destra, non ci pensa proprio. E allora, siccome sa che è dalle truppe parlamentari che può arrivare la sfiducia, è coi deputati e i senatori che prova a ricucire. Assecondando, però, i loro capricci peggiori: a Toninelli che lo accusava di averlo abbandonato, Di Maio torna a ribadire che la guerra ai Benetton è ancora in corso; alla Lezzi che lo criticava per l’abiura sull’Ilva, concede (almeno per qualche altro giorno) la vittoria sullo scudo penale. E via così anche sul prescrizione e Mes. Della serie: “Rimpiangevate Dibba? Ora vi faccio Dibba”. E pazienza se questo fa traballare il governo. “Tanto – sibila Di Maio ai suoi fedelissimi – non cade”.