Stiamo scherzando?”. Il ricandidato – così è infatti scherzosamente detto in Emilia-Romagna il presidente uscente e pronto a correre di nuovo (per il Pd) Stefano Bonaccini – da giorni, in tv, inanella uno “stiamo scherzando?” dietro l’altro (specie, ma non solo, quando è a confronto sulla Sanità con la sfidante leghista Lucia Borgonzoni). E più il tono dei vari “stiamo scherzando?” si alza, più si capisce che la sfida emiliana (a fine gennaio 2020) sta diventando davvero, come a sinistra si era sperato non diventasse, una sorta di ordalia sul governo rossogiallo (della serie: se non si decidono i contraenti del patto, si ricorrerà al giudizio divino, in questo caso molto terreno: giudizio dell’elettorato tradizionalmente ex-post-neo comunista oggi tentato da Matteo Salvini). E c’è persino chi mette a confronto, nel mondo intellettuale emiliano che ancora gravita tra Mulino e università, lo “stiamo scherzando?” di Bonaccini con il “ragazzi, ma siamo pazzi?” di Pier Luigi Bersani. Altro emiliano (ma piacentino, mentre Bonaccini viene dal modenese) che l’Emilia-Romagna l’ha conosciuta da vicino in ben altri periodi, quando insomma non si rischiava il testa a testa, come dicono i sondaggisti, tra il candidato di centrosinistra e il candidato leghista, e quando tutti potevano scrivere, anche prima che le urne chiudessero, che l’eccezione emiliana confermava la regola della regione rossa. Fatto sta che ci si trova ora nell’era fantascientifica dell’imminente 2020, oggetto non identificato per occhi che, fino a poco tempo fa, trovavano nell’Emilia rossa certezze difficili da mettere in discussione. E dunque Bonaccini ha dovuto prendere la decisione impensabile per qualsiasi candidato di una regione rossa quando le regioni rosse erano davvero rosse: mettersi in posa per un manifesto elettorale dal colore verde, con sotto la scritta “Emilia Romagna. Un passo avanti”, senza neppure il simbolo del partito – ma non è un verde Lega, ha detto il governatore uscente per rispondere alle prime reazioni basite dei tradizionalisti elettorali, bensì un verde che, nell’epoca di Greta e dei “Fridays for future”, richiama i colori dell’ambientalismo, una delle priorità del candidato che ha tentato, come prima di lui il Bersani dello scouting, la via del dialogo con i Cinque stelle (che cosa meglio del tema “riscaldamento globale”, per cominciare?).
La nuova corsa con manifesto “verde” (ma non verde Lega), gli occhiali da hipster e il paradosso dell’essere più benvoluto del Pd
Tuttavia, nell’Emilia-Romagna “che è cresciuta più di tutte le altre regioni”, come dice il governatore, l’ambientalismo a prescindere cozza a volte con la realtà, tanto che lo stesso Bonaccini, a proposito di plastic tax, ha dovuto far gentilmente notare al governo Conte bis (e al Pd) che il provvedimento non sarebbe stato proprio l’ideale per le molte aziende del settore imballaggi presenti in loco, il 36 per cento di quelle nazionale che fanno packaging. Ed eccolo, oggi, dopo un mese, il governatore uscente e rientrante in gara, alle prese con lo scenario che i più cinici definiscono all’americana “worst case”, cioè del caso peggiore, con i Cinque stelle in crisi nera dopo la sconfitta umbra dell’alleanza giallorossa e in crisi ancora più nera riguardo all’opportunità di correre in Emilia con il Pd. Il risultato è noto: voto contestatissimo del M5s su Rousseau, defezioni e divisione interna grillina, e Bonaccini che cerca di far ragionare i fuggitivi in extremis: così si fa un regalo a Salvini, così, con il turno secco elettorale, chi avrà un voto in più vincerà e voi non farete la vostra scelta. E dunque, che Bonaccini sieda nel salotto di Bianca Berlinguer, su Rai3, o in quello di Corrado Formigli, su La7, il mantra del ricandidato è “io voglio provare a dare risposta a problemi, speranze, inquietudini” in una regione che “da cinque anni è prima per crescita, per export e tasso di attività”. Una regione che sembra fare, da anni, dicono gli osservatori, da apripista anche a tutto quello che si muove sulle piazze senza logo del Partito democratico (se non contro il Partito democratico), dal Beppe Grillo del “vaffa” in giù. E anche se il governatore si è potuto parzialmente consolare, nelle ultime due settimane, vedendo le sardine antisalviniane in Piazza Maggiore a Bologna e in altre piazze emiliane in mobilitazione spontanea, il viaggio verso la riconferma si è riempito comunque di punti interrogativi (uno tra tutti: puntare o non puntare, in Emilia, con il Salvini onnipresente che rema nella direzione opposta, sul fatto che il Pd parli ora sempre più spesso di ius soli?). Come ha reagito Bonaccini all’inasprirsi del clima lo si è visto intanto nell’incredibile metamorfosi fisico-stilistica del governatore, che non soltanto, come ha raccontato, fa regolarmente sport, da ex calciatore quale è, ma ha adottato delle giacche e delle montature – occhiali da hipster in corpo non hipster. Non per niente gli era stato affibbiato (da Matteo Renzi) il soprannome di “Bruce Willis di Campogalliano” (il paese del modenese dove tuttora fa base con moglie e figlie), ai tempi in cui Bonaccini, prima bersaniano (primarie 2012), poi renziano (primarie 2013), veniva a Roma da Bologna per le riunioni della segreteria Pd, dove sedeva come coordinatore Enti Locali, mentre si apprestava a correre per il primo mandato da governatore.
La “regione che è cresciuta di più” alle prese con i fantasmi che minacciano un modello socio-economico finora vincente
“Discutiamo di idee e partiamo dai contenuti”, diceva non più tardi di due mesi fa il ricandidato Bonaccini, quando ancora non si sapeva che l’Umbria si sarebbe messa in mezzo ai piani di alleanza del Pd, e quando, alla conclusione della festa dell’Unità bolognese, il segretario del Pd Nicola Zingaretti aveva incoronato simbolicamente l’uomo, in vista della gara di gennaio. Una gara a cui il governatore si preparava incontrando in massa i segretari provinciali e chiedendo unità su un comune programma, eventualmente condiviso anche da imprenditori e professionisti, quelli a cui si pensa per una lista autonoma collegata. Bonaccini sa infatti di avere in qualche modo più seguito del suo partito, forse anche per via della sua battaglia per l’autonomia regionale (da sinistra, in terre del nord circondate dalla Lega). C’è però un’incognita: che cosa diranno e faranno, alla prova della campagna elettorale, quelli che al momento paiono gli alleati a sinistra del Pd, dall’Italia in Comune di Federico Pizzarotti (“sì a Bonaccini, ma non all’alleanza Pd-Cinque stelle”, aveva detto l’ex grillino sindaco di Parma) a “Emilia-Romagna coraggiosa”, formazione ecologista e progressista guidata dall’ex eurodeputata di “Possibile” Elly Schlein (con l’ex governatore Vasco Errani), gli europeisti di Volt, i Verdi. Racconta un consigliere regionale che in questi giorni c’è chi ragiona sul cosiddetto “paradosso Padellaro”, dal nome dell’ex direttore dell’Unità e del Fatto quotidiano che a “Piazzapulita”, su La7, giorni fa, si è rivolto al governatore dicendo qualcosa come: lei è un candidato forte, ma alle spalle non ha praticamente nessuno, mentre la sua avversaria Lucia Borgonzoni è meno forte, ma alle spalle ha il fortissimo Salvini. E Bonaccini, dalla “regione che cresce di più”, rispondeva che il punto era un altro: non che Salvini affianca Borgonzoni, ma che Salvini “copre Borgonzoni per trasformare in altro un voto per il governo dell’Emilia-Romagna, solo che dal 27 gennaio lui tornerà a Roma, e qui resteremo o io o lei. Punto”.
Il Bonaccini che dice “stiamo scherzando?” come il Bersani che diceva “siamo matti?”, e il percorso pre e post renziano
La partita deve ancora cominciare, e si gioca sulla base dei numeri, dice il Bonaccini candidato bis a chi vuole affossare con il voto emiliano il Conte bis. Al Corriere della Sera, a inizio novembre, ha detto che negli anni del suo mandato “la disoccupazione è scesa sotto al 5 per cento” dal 9 per cento a cui era arrivata, e che la sua regione ha anticipato il super-ticket, uno degli argomenti divisivi della manovra economica. Poi ricordava che oltre duecento sindaci, alcuni dei quali eletti con liste civiche di centrodestra, avevano sottoscritto un appello in suo sostegno. Sia come sia, il fatto che Bonaccini (uno che ha percorso tutta la scala interna nell’ex Pci-Pds-Ds-Pd, fin da quando, nei primi Novanta, era segretario provinciale della Sinistra giovanile) si presenti oggi senza logo non stupisce chi ricorda il Bonaccini candidato del 2014, quello che sui manifesti compariva non in verde ma in blu, anche allora molto più in evidenza del partito e con slogan ecumenico (“siamo l’Emilia-Romagna”). Un’Emilia Romagna in cui il tema immigrazione non può essere trattato alla leggera e con toni populistici, in un senso o nell’altro, tanto che il governatore, sempre su La7, ha invitato la sinistra a “fare un bagno di realismo”: “Era stato Marco Minniti a bloccare gli arrivi in questo paese e non Salvini”, ha detto: “La sinistra deve dire che insieme ai diritti, che per noi sono sacri, vanno garantiti i doveri. Chi viene qui per lavorare o studiare è il benvenuto perché noi siamo la terra dell’ospitalità, ma chi viene qui per trasgredire non può stare alle nostre regole”. E dopo aver visto Piazza Maggiore stracolma di sardine il 14 novembre, Bonaccini ha fatto appello al Pd e non solo: “Dico al mio partito e a coloro che mi vorranno sostenere: torniamo a Piazza Maggiore a dicembre. Sono anni che non andiamo più nelle piazze, torniamoci!”. In piazza Bonaccini ci è sempre andato, perché si è sempre occupato di politica nel partito che le piazze in Emilia le riempiva, ma la politica in casa non l’ha mai portata.
Quando Renzi lo chiamava “Bruce Willis di Campogalliano”, e quando litiga sulla Sanità con l’avversaria leghista Borgonzoni
Figlio di un camionista e di un’operaia, marito di una moglie che lavora nel settore abbigliamento, conosciuta quando era assessore a Modena, durante una riunione con i commercianti della zona, il governatore uscente e ricandidato si è dato la regola di non parlare di campagne elettorali a cena, e però la campagna elettorale preme, volente o nolente, non soltanto alle porte di casa sua, ma alle porte di tutta la regione – un dirigente emiliano ne parla come di “una piccola Svizzera circondata da una specie di Africa, dove l’asticella di quello che ci si aspetta da chi governa è per forza alta”. Digitalizzata, dunque, è l’Emilia che Bonaccini spera di aver reso fedele; super alfabetizzata; abituata ai processi partecipativi “dal basso” prima dell’avvento dei Cinque stelle; colpita al cuore dal terremoto del 2012, che ha scavato insicurezze nelle certezze di una delle regioni-locomotiva dove il reinventarsi fa parte del vivere. Ricostruire partendo dai luoghi di lavoro, è stata la linea guida nell’Emilia post sisma, nonostante il disorientamento. Bonaccini è diventato governatore nel 2014, e non a caso oggi parla con attenzione delle esigenze di un mondo imprenditoriale che in Emilia-Romagna si è fatto seguace, prima che altrove, di un modello olivettiano di filantropismo imprenditoriale che porta l’imprenditore a restituire una parte del profitto sotto forma di servizio al territorio. Per esempio l’“opificio Golinelli”, cittadella della cultura creata dall’omonimo imprenditore, o l’“hospice Seragnoli”, centro per l’assistenza gratuita per pazienti oncologici non guaribili, creato dalla famiglia nota per l’impegno in campo socio-sanitario a fianco di quello aziendale.
Parte anche da qui la seconda campagna per la Regione di Bonaccini che, dice un sondaggio SWG, è arrivato secondo nel gradimento dei governatori italiani, dietro al leghista e presidente del Veneto Luca Zaia. E nelle soste al bar o in autogrill (Bonaccini gira spesso con macchina propria), il ricandidato, scrive lui stesso su Twitter, si ferma a scambiare due chiacchiere con gli sconosciuti, forse per capire le ragioni profonde di quel 33,77 per cento andato a Matteo Salvini alle Europee, non molti mesi fa. Che cosa farà davvero l’Emilia-Romagna nessuno ancora può prevedere, anche se, a chi la osservi dall’esterno e a chi la vuole difendere o conquistare, deve sembrare ancora, pur sempre, “Quel gran pezzo dell’Emilia”, per dirla con il titolo del libro scritto dal compianto Edmondo Berselli nel 2004 (ed.Mondadori): “Terra dai confini indefiniti che è il Sud del Nord e il Nord del Sud: qualcuno la chiama Emilia. Due passi più in là prende i colori della Romagna. Guarda con curiosità Milano, è di casa a Mantova, oltre il Po. Forse è un laboratorio politico, dove si aggirano ancora vecchi comunisti, insieme a mortadelle dal volto umano, cinesi importati. E’ una terra di nichilisti ed empirici, balzani e creativi, cordiali e collerici. Di bottegai sublimi… di creatori di illusioni, come il mago dei sogni Federico Fellini”. Modello politico o modello psicologico?, si chiedeva Berselli, e in quel dubbio sta forse la chiave della battaglia che attende il centrosinistra ora rivolto a Bonaccini.
Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.