La maggioranza fa baruffa sui conti, ma nessuno vuole rompere
Renzi battagliero sulle tasse, Conte gli dà ragione per non restare schiacciato, il Pd balbetta e il M5s teme le elezioni
Roma. Le cifre sono così irrisorie, dal punto di vista contabile, che giovedì sera i tecnici del Mef, nella loro spola tra Piazza Colonna e Via XX Settembre, invitavano alla calma: “Litigare? Macché, solo schermaglie”. E però ci sono circostanze in cui anche l’eccesso di zelo, di efficienza, può creare problemi. E così, quando Roberto Gualtieri si presenta, un po’ in ritardo, al vertice mattutino convocato a Palazzo Chigi, mettendo sul tavolo perfino più di quanto gli era stato richiesto, in termini di risorse, la sua magnanimità finisce col rinfocolare le tensioni che avrebbe dovuto spegnere.
Perché gli spiccioli che avrebbe dovuto trovare, per placare le ire dei renziani contro sugar e plastic tax assecondate con imprevisto trasporto anche da Giuseppe Conte (che poi a tarda sera è salito al Quirinale: “Se serve a ribadire che questo non è il governo delle tasse, ben venga”), erano 320, 340 milioni al massimo. E invece, attraverso un prelievo sul gioco d’azzardo e qualche altro escamotage sulle aspettative d’introiti dalla lotta all’evasione, il ministro dell’Economia ne mette a disposizione 500 e più, di milioni. Basterebbero per rimandare l’entrata dei due balzelli, nella loro forma già rimodulata al ribasso, almeno fino settembre. “Sforzandoci un po’ – fa presente Teresa Bellanova, di Italia viva – potremmo anche rinviarli al 2021, e poi si vedrà”. E però a quel punto scatta la rimostranza del Pd, diretta a distanza da Andrea Orlando: “Se ci sono davvero più risorse e di questo si discute al vertice di maggioranza, mettiamole per ridurre ulteriormente la pressione fiscale sui salari dei lavoratori italiani”, dice il vicesegretario del Pd. Ed è a quel punto che scatta la rissa, tutta interna agli ex compagni di partito, col viceministro Antonio Misiani che si fa interprete del verbo orlandiano per difendere le due “tasse giuste”, la Bellanova a rispondergli a brutto muso, e Dario Franceschini, capo delegazione del Pd, seduto al tavolo nei panni del manzoniano padre provinciale che dovrebbe “troncare, sopire”, e allora propone di rinviare a luglio l’introduzione delle tasse. E Gualtieri, a quel punto, che si ritrova a leggere ad alta voce le agenzie di segno opposto che arrivano da Orlando e da Andrea Marcucci, entrambi del suo stesso partito, e quasi sbotta: “Mettetevi d’accordo”.
I grillini perlopiù tacciono, come chi a vedere litigare due ex coniugi non ci pensa neppure a intromettersi. Laura Castelli azzarda solo una timida proposta (“Se abbiamo più soldi dal gioco d’azzardo, diamoli ai Vigili del fuoco”) che cade inascoltata. Federico D’Incà, ministro per i Rapporti col Parlamento, si stringe nelle spalle: “Il mio mestiere è usare la colla per tenere insieme i pezzi”, dice. E del resto, con Luigi Di Maio così indebolito, mettersi a litigare non è il caso, mentre l’eco dell’inutile scazzottata – con tanto di tweet con capodogli spiaggiati a giustificare la necessità della tassa contro la plastica, e accuse di “sovietismo” lanciate di rimando: tutta roba che il tacere è bello – arriva fin dentro i corridoi del Senato, dove i membri della commissione Bilancio sono ancora in attesa di potere procedere alla scrematura finale degli emendamenti della manovra. E così Eugenio Comincini, renziano, uscendo dalla buvette allarga le braccia: “E’ tutto un puntiglio del Pd per non riconoscerci la vittoria. Ma se non alziamo le tasse, se non rendiamo difficile la vita alle imprese, la vittoria è di tutta la maggioranza, del governo e dell’Italia”. Un ragionamento che, al netto delle logiche d’appartenenza, è condiviso anche da quella parte del Pd che non si riconosce nella nostalgia della Ditta. “Rinviare l’applicazione delle due tasse – spiega il capogruppo al Senato, Marcucci – significa dare il tempo alle imprese di adeguarsi al nuovo corso. Sbaglia chi, anche nel mio partito, su ogni tema si inventa una guerra”. Finirà insomma con un doppio rinvio: la plastic tax a luglio, la sugar tax a settembre. “Ma finisce nell’unico modo in cui poteva finire – insiste Marcucci – e cioè con il buon senso”.
Anche perché alla minaccia che tutti sventolano, quella delle elezioni anticipate, nessuno pensa di dare seguito. Neppure quel Matteo Renzi che, dopo avere predicato la necessità di arrivare con questo Parlamento a eleggere il prossimo capo dello stato, ha preso, pure lui, a paventare la crisi di governo, forse per non passare come l’unico pavido della compagnia. O almeno, questa è la convinzione di Maria Elena Boschi, che in Parlamento rassicura chi la interpella per decifrare gli umori dell’ex premier e svolge il ruolo della tessitrice. Non è un caso che perfino all’annuncio strampalato della candidatura del turbocomplottista grillino Elio Lannutti a presidente della commissione sulle Banche, i renziani abbiano evitato di gridare (com’era forse doveroso) allo scandalo. I due capigruppo al Senato di Iv e M5s, Davide Faraone e Gianluca Perilli, si sono parlati, sapendo entrambi che quel nome non ha alcuna possibilità di essere votato, ma hanno convenuto di non scatenare la guerriglia al Senato. D’altronde, basta e avanza l’attenzione con cui Sergio Mattarella (quello stesso Mattarella che Lannutti suole definire “mummia sicula” o “padrino”) segue il dossier sulle banche, per sapere che il presidente sarà un altro. Lo sanno anche i grillini, che hanno previsto già una seconda candidatura: quella del deputato veneziano Alvise Maniero, che nei sondaggi interni ai commissari grillini ha ottenuto quattro voti, uno in meno di Lannutti.