Cari partiti, non sparate sulla Consulta quando vi deluderà sul referendum elettorale
Per molti il quesito non può superare il giudizio di ammissibilità. Se infatti fosse ammesso e avesse successo, si verrebbe a creare un vuoto normativo
Con l’ordinanza emanata il 20 novembre dall’Ufficio centrale per il referendum istituito presso la Corte di Cassazione, si è conclusa un’altra fase dell’iter per la richiesta del referendum abrogativo della legislazione elettorale. Nella prima fase, costituita dalla richiesta d’indire il referendum, l’iniziativa non è stata assunta da un comitato promotore, bensì – per la prima volta – da alcuni consigli regionali. Nella seconda fase, che si è appena svolta, la denominazione della richiesta di referendum è stata meglio precisata. Essa verte sull’abolizione del metodo proporzionale nell’attribuzione dei seggi in collegi plurinominali del Parlamento. Si tratta, dunque, di abrogare le norme che conformano l’attuale sistema elettorale in senso proporzionale.
L’obiettivo è di configurare il sistema elettorale in senso maggioritario, come era auspicato dai referendum elettorali del 1991 e del 1993, proposti da Mario Segni, da Marco Pannella e da altri esponenti delle istituzioni e della società. In entrambi i casi, la richiesta referendaria ottenne un indiscutibile successo: sui poco meno di 30 milioni di voti espressi nel 1991, la percentuale fu di oltre il 95 per cento; sui quasi 37 milioni di voti espressi nel 1993 (un’affluenza del 77 per cento), la percentuale fu di oltre l’82 per cento. E’ comprensibile, quindi, che quanti – non solo nella Lega – chiedono che i cittadini si pronuncino nuovamente riguardo al tipo di sistema elettorale facciano riferimento a questi incoraggianti precedenti.
Non bisogna trascurare – però – che quei precedenti poggiarono su un forte consenso popolare, ben evidenziato dall’alto numero di firme raccolte dai promotori. In questo caso, invece, la richiesta d’indire il referendum è indiretta, perché proviene dai rappresentanti dei cittadini eletti all’interno dei consigli regionali e senza che il tema sia stato messo al centro dei programmi sui quali essi hanno ottenuto il voto. Inoltre, prima che i cittadini possano pronunciarsi, è necessario che la richiesta di referendum superi il vaglio della Corte costituzionale. Essa renderà nota la propria decisione entro la fine di gennaio, dopo aver verificato il rispetto dei limiti cui il referendum è sottoposto. Proprio a tali limiti si richiamano in molti, reputando che il quesito referendario non possa superare il giudizio di ammissibilità. La ragione è che, se il referendum fosse ammesso e avesse successo, si verrebbe a creare un vuoto normativo, perché non vi sarebbe una “coerente normativa immediatamente applicabile”. Bisognerebbe, cioè, ridisegnare tutti i collegi prima delle nuove elezioni. È un argomento da non sottovalutare. Vanno tenute nel debito conto anche le conseguenze della discutibile riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari.
E purtuttavia, i sostenitori del sistema proporzionale farebbero bene a non dimenticare che, già nel 1991 e nel 1993, la Corte costituzionale assunse decisioni impreviste dai più. Dal conto loro, i cittadini disattesero l’invito ad “andare al mare”. Forse anche per scongiurare un esito di questo tipo, nella maggioranza, alcuni reputano opportuno presentare subito in Parlamento un testo condiviso, in modo da “occupare” preventivamente il terreno della contesa. Ma è improbabile che ciò possa influire sul giudizio della Corte. Sbagliano anche quanti non danno alcun peso alla circostanza che la richiesta del referendum sia venuta da ben otto consigli regionali, rispetto ai cinque richiesti dalle norme vigenti. In ciò, si manifesta l’insoddisfazione di molti cittadini per le modalità con cui i meccanismi istituzionali sono gestiti. La loro insoddisfazione rischia di essere ancora più profonda se le decisioni riguardanti molti importanti dossier, all’interno e all’esterno del paese, saranno ulteriormente ritardate.