Elio Lannutti (foto LaPresse)

Il M5s vuole togliere a Lannutti la commissione Banche

Valerio Valentini

Il grillino non desiste e medita di ingaggiare Di Pietro. Ma il Movimento medita di scaricarlo

Roma. L’accordo sul da farsi, in verità, ci sarebbe già: o, quantomeno, sarebbe chiaro quel che da farsi non si può. Se non fosse che, però, Elio Lannutti non demorde. E anzi s’impunta, s’incapriccia nella sua aspirazione somma di diventare il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Ed è così che, ha fatto sapere, anziché fare un passo indietro come tutti perfino nel suo stesso partito gli chiedono, il senatore del M5s, già presidente dell’Adusbef, s’impegnerà a rispondere per le vie legali a tutti quelli che, ricordandogli quel tweet quantomeno obbrobrioso sui protocolli dei Savi di Sion, osano parlare delle sue tendenze antisemite. Ed è così che, ad alcuni suoi colleghi, ieri pomeriggio ha già dato la notizia: “Mi sono trovato già un avvocato a cui nei prossimi giorni affiderò l’incarico di difendermi contro queste calunnie”.

 

Solo che il prescelto ha un nome che, nei corridoi di Palazzo Madama e non solo, risuona ancora con un certo clamore: perché l’avvocato in questione è, nientedimeno, Antonio Di Pietro. Il quale, però, interpellato, pare cadere dalle nuvole, con quel tono intriso di doppiezza contadina che non sai mai dire se ti stia depistando o se davvero lo stupore è reale: “Io avvocato difensore di Lannutti? Mi date una notizia, non ne so nulla”, risponde a telefono l’ex pm, con le buste della spesa ancora in mano. “E poi io che c’azzecco con lui?”. C’azzeccherebbe, in verità: se non altro per essere stato, Di Pietro, il leader di quell’Italia dei valori con cui Lannutti fece il suo debutto in Parlamento, nel lontano 2008. “Con Di Maio ci ho parlato già qualche settimana fa”, racconta Lannutti. “Gli ho chiesto se era il caso che rinunciassi, e lui mi ha detto di no”. E che il senatore ci creda ancora, nella sua elezione a sommo Torquemada dei banchieri, lo dimostra anche la strana compitezza istituzionale con cui, lui sempre pronto a vestire i panni dell’incendiario, s’è acconciato a far sapere, via Facebook, che “la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche non è un tribunale e non è un organo di vigilanza”. Come a mettere le mani avanti, insomma, o a tentare di ricostruirsi, un po’ fuori tempo massimo, un minimo di credibilità anche dalle parti del Quirinale, dove certo – pur non intromettendosi in questioni di stretta pertinenza parlamentare – non farebbero i salti di gioia di fronte all’elezione di uno che ha definito il Capo dello stato, negli anni, “mummia sicula”, “traditore” e “padrino”. Nel senso di mafioso.

 

 

E insomma si capisce perché, anche e soprattutto dentro i Cinque stelle, si sia attivata tutta una diplomazia di conciliaboli e messaggi in bottiglia alle spalle di Lannutti. Compresa la richiesta, fatta giungere a esponenti renziani, di affossare la candidatura del senatore. E siccome l’accordo prevedeva di tenere il Senato al riparo dalle tensioni, visto che quelle intorno alla legge di Bilancio sono già troppe, ecco che a impallinare Lannutti ci hanno pensato quelli di Iv: prima Matteo Renzi e a seguire Gennaro Migliore, Ettore Rosato e Luigi Marattin. Ma anche nel Pd la contrarietà alla nomina di Lannutti è assoluta. Anche perché l’altra opzione, quella che vedrebbe la nomina di Carla Ruocco alla presidenza della commissione Banche, concederebbe ai dem la guida di un’altra commissione, quella delle Finanze alla Camera attualmente detenuta dalla deputata campana: il nome che circola, al Nazareno, è quello del franceschiniano Fabio Melilli, attualmente capogruppo in Bilancio. Del resto, al netto dei suoi toni talvolta aspri, al netto perfino di quella figura non proprio edificante che fece quando tentò di incalzare il governatore Ignazio Visco chiedendogli: “Dov’è l’oro della Banca d’Italia?” (“E’ in Banca d’Italia”, rispose, tra l’imbarazzato e il costernato, Visco), al netto di tutto questo la Ruocco ha saputo guadagnarsi anche una fama di “grillina competente”, o “grillina ragionevole”, che non è poco. Se ne accorse perfino Giovanni Tria, quando se la vide comparire nel suo ufficio di Via XX Settembre, pochi giorni dopo la conquista del 2,4 per cento di deficit festeggiato dal balcone di Palazzo Chigi, tutta preoccupata per quella decisione: “Ma come mai si è deciso di arrivare fino a quella cifra?”, si sentì chiedere l’allora ministro dell’Economia, un po’ incredulo di fronte a quella richiesta a cui la Ruocco fece seguire una precisazione: “Io, comunque, sul balcone non c’ero”.

 

 

Come che sia, ci vorrà tempo per convincere Lannutti a rinunciare. “Per ora il nostro candidato resta lui”, dice il capogruppo del M5s al Senato Gianluca Perilli, precisando che, però, “non è detto che giovedì si arrivi alla soluzione”. Sì, perché la commissione d’inchiesta dovrebbe riunirsi appunto tra due giorni, ma quasi nessuno ci scommette davvero. Neppure Vincenzo Presutto, senatore grillino da poco promosso “facilitatore” (cioè responsabile nazionale) per l’economia del M5s, che è stato subito investito della responsabilità del nuovo ruolo e già domenica sera, poche ore dopo la sua nomina, è stato mandato a Palazzo Chigi per partecipare al vertice di maggioranza sulla Banca popolare di Bari. Del resto, ci sono da definire ancora altri incarichi parlamentari, come le vicepresidenze di alcune commissioni e la presidenza di quella del Lavoro del Senato, rimasti vacanti dopo il cambio di governo. E su quelle un’intesa ancora non c’è. Così come non è stata trovata per la guida dell’altra commissione d’inchiesta bicamerale, quella sul Forteto (la comunità fiorentina al centro, in passato, di scandali sessuali): e se questa, come sembra, spetterà a un senatore, quella sulle Banche andrà necessariamente assegnata a un deputato. O una deputata. Tutto, pur di evitare Lannutti.