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Internazionale sardine

Marianna Rizzini

Come continuare dopo il weekend di piazza e assemblea a Roma? Come “crescere senza farsi partito”? Rispondono (e si raccontano) i promotori degli eventi di Torino, Parigi, Bordeaux, Berlino, Amsterdam

Roma. Riempire una piazza, poi due, poi tre, vedere che l’idea si propaga con il passaparola virtuale, attraverso poche parole d’ordine. Sentire la pressione mediatica, raggiungere il picco di attenzione, cadere in qualche errore, rappattumare l’errore, riscendere in piazza e decidere di “vedersi tutti in faccia”, a Roma: un mese di sardine, e si riparte in qualche modo dal via. E’ stato un successo, sì, ma questo è il momento in cui del successo devi decidere che cosa farne (il fondatore delle sardine Mattia Santori, a “Mezz’ora in più”, ha detto di voler coinvolgere il 25 per cento degli italiani, senza fare un partito ma “cercando il dialogo con la politica”). E dunque non si può, dopo il weekend in cui è stata riempita piazza San Giovanni e in cui ci è visti in un centro sociale romano per conoscersi, andare troppo avanti (non si farà un partito, appunto). Ma neanche si possono “disperdere le energie”, come chiedono all’unisono le sardine originarie e aggregate. Intanto, ci sono i “sei punti programmatici” usciti dalla riunione-congresso di Roma. E c’è quel voler “tornare nei territori”. Tornare nei territori, hanno detto anche le sardine che all’estero, da Parigi a Helsinki a New York, hanno organizzato flash-mob di appoggio a quelli italiani, e osannate dai quotidiani stranieri: le Monde ha scritto che “la marea umana” vista sotto il logo sardine “è di un genere nuovo” e che “Matteo Salvini non ha più il monopolio delle piazze”; il Guardian che “il movimento delle sardine è la prima insurrezione popolare contro il populismo di destra”.

 

Intanto, nel nordovest italiano, il “tornare nei territori”, dice Mattia Angeleri, praticante in uno studio legale e “sardina tra le sardine torinesi numero zero”, presente il 14-15 dicembre a Roma, vuol dire anche “tornarci con quell’impressione positiva. E’ stata una festa per la grande partecipazione di gente che era lì per ribadire la voglia di dire no a un modo di fare politica. E’ stato un segnale forte lanciato a chi continua a portare avanti un discorso di odio e di violenza, e un invito a perseverare a chi si contrappone a quel lessico”. A quale bisogno risponde, però, questa partecipazione spontanea che corre lungo il confine sottile tra il volerci essere sempre di più (il sognato 25 per cento) e il non poterci e non volerci essere come partito? Dice Angeleri che “intanto la mobilitazione delle sardine riempie un vuoto culturale. Queste persone in piazza, infatti, provenienti da mondi diversissimi, convergono su un punto: sanno quello che non vogliono. Non vogliono un dibattito schiacciato su slogan di aggressività sterile. Credono ancora nelle istituzioni e nei partiti, li chiamano in causa come interlocutori, vogliono fare da ponte tra chi si mobilita e la classe dirigente. E la sfida e l’opportunità consistono, per le sardine, nel fare politica mobilitandosi per gli interessi dei cittadini, senza doversi misurare con la perdita il consenso”. Ma che cosa vuole dire, da ora in poi, declinare i cosiddetti “sei punti” nei territori, come le sardine convenute nella capitale hanno detto di voler fare? “So che discorsi complessi andranno trattati con un linguaggio più complesso”, dice Angeleri, “ma intanto in Piemonte si può partire da due punti: il discorso ambientale e quello sul lavoro e sulla sicurezza. Non dimentichiamoci che qui abbiamo avuto i casi Thyssen ed Ethernit”. C’è stato però anche un caso Tav, con polemiche relative proprio nei giorni della piazza di Torino: “Stiamo cercando appunto di impedire che la piazza venga strumentalizzata”.

 

A Parigi intanto, racconta Paolo Tifano, studente Erasmus di Scienze politiche, la voglia di farsi sardine gemellate è nata su iniziativa di una ragazza, Valentina Cogliandro, che si è messa poi in comunicazione con una piccola rete internazionale di persone “consapevoli che il problema del linguaggio d’odio, del lessico razzista e della retorica non inclusiva non è soltanto italiano”, dice Paolo: “Per questo noi da un lato vogliamo sostenere a distanza le piazze italiane, dall’altro puntare sui temi che ci riguardano come italiani all’estero – nel nostro caso in una città multiculturale come Parigi, in cui si lavora tutti a contatto con chi è arrivato da altri paesi”. Tra le altre sardine “numero zero” parigino-italiane ci sono un’archivista, una cameriera, un medico: “Non ci conoscevamo fino a tre settimane fa”, dice Paolo, “qualcuno in passato era stato attivista di un partito, altri no. Ma la maggior parte di noi sono persone deluse da un certo modo di fare politica. Detto questo, non voglio che le sardine si trasformino in partito, vorrei che riuscissimo a segnalare ai partiti esistenti quali sono i problemi più urgenti. E in questo forse noi, vedendo la situazione dall’esterno, possiamo dare una mano”. Ma come si fa a esserci sempre di più senza farsi partito? “Chiedendo, in tanti, risposte precise”.

 

Le sardine sono sbarcate anche a Bordeaux, racconta Gabriella Patera, studentessa di Diritto (in Erasmus). Gabriella ha visto in tv la prima piazza di Bologna e, “con una coinquilina modenese e con un amico veronese”, ha deciso di attivarsi, all’inizio soltanto parlandone con gli amici. Poi si è aggiunto un gruppo di ricercatori. “In generale ho trovato molte persone interessate anche tra i francesi”, dice Gabriella. “Perché aspettare che si muovano altri? ci siamo detti, e ci siamo mossi”. Lungo una delle vie principali di Bordeaux, il flash mob della sardine ha incrociato, a un certo punto, una delle mobilitazioni cittadine dei gilet gialli. “E quando una rappresentante dei gilet gialli”, racconta Gabriella, “si è avvicinata per esprimerci solidarietà, noi abbiamo ribadito che la nostra piazza è senza bandiere, aperta e inclusiva, a patto che si rispettino i punti-chiave: antifascismo, antirazzismo, non violenza”. Le sardine “non esistono”, ha detto la sardina originaria Mattia Santori, “sono persone che riempiono spazi con le loro idee e che vedono un nemico, il pensiero semplificato populista”. E le persone, racconta Gabriella, a Bordeaux, “si sono avvicinate raccontandoci le loro storie di persone di una certa età, italiani che avevano lasciato il paese anni prima e che lo guardavano ora dall’esterno con preoccupazione”. “Siamo amplificatori”, dice Gabriella: “Vogliamo ripartire dalla politica vecchio stampo, quella con i buoni vecchi comizi, quella in cui i rappresentanti stanno sul territorio”. Le piazze piene di sardine, in Italia e all’estero, non sono anti-partitiche, e il primo contenuto è il no al suddetto “pensiero facile” populista: “La cosa positiva è ritrovarsi tra esseri umani e parlare, non banalizzare più la politica, dimostrare che c’è gente che vuole fare uno sforzo in più per ragionare, sperando ci siano politici che vogliono fare uno sforzo in più per fare riforme scomode ma serie. All’inizio magari non saremo d’accordo, la soluzione trovata non sarà semplice, ma è necessario passare da lì, interrompere la scorciatoia che alimenta l’odio”.

 

A Berlino il gruppo Facebook delle sardine è stato aperto a fine novembre da Thokozile Martucci Schiavi, copy-writer italiana di origine eritrea, da 14 anni all’estero. “Le adesioni sono arrivate rapidissime”, dice. “Il punto è combattere il populismo a partire dal linguaggio, come in Italia, sapendo che in altri paesi europei ed extraeuropei la semplificazione populistica ha già creato problemi – vedi il Brasile di Bolsonaro. Dobbiamo puntare a una comunicazione più umana, e in questo io credo che la nostra azione possa offrire una nuova sfumatura, a partire dai tanti luoghi comuni da abbattere sulla figura dell’espatriato, nel nostro caso, fino al migrante. Possiamo insomma offrire la possibilità di veicolare un messaggio pacato di rispetto reciproco”. Ad Amsterdam quattrocento sardine hanno manifestato, cantando “Bella ciao”, all’inizio di dicembre. Viola Dressino, architetto trentenne, ha promosso l’evento di piazza con altre cinque ragazze. “Era partito come un gioco: proviamoci, ci siamo dette”, racconta Viola, ma poi “la risposta è stata talmente positiva che siamo scesi in piazza anche il 14, in contemporanea a Roma”. Che cosa attira, che cosa fa tornare la gente a manifestare? “Il fatto che si riesca così a convogliare l’energia attorno a un’idea: non ci si vuole più girare dall’altra parte”, dice Viola, convinta che “non si farà un partito, e che si riuscirà a non disperdere questa grande carica umana ed emotiva. E’ come se le persone non aspettassero altro che un segnale per dire ‘c’è un altro modo’”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.