Dove va il Pd?
Il deputato di Italia viva Gennaro Migliore replica ad Andrea Romano (Pd)
Al direttore - Approfitto della sua ospitalità per rispondere all’articolata lettera di Andrea Romano sul presunto fallimento della nostra impresa politica, Italia viva, perché i temi da lui posti non sono né scontati né frutto di una reazione emotiva (che pure potrebbe essere giustificata). Parto da un’annotazione personale, che mi lega politicamente a Romano nell’ultimo scorcio della mia attività politica. Andrea e io siamo entrati nel Pd esattamente nello stesso giorno, io provenendo da Sel e lui dalla formazione politica che fu inventata da Monti. La contestualità di una convergenza così curiosa, del tutto casuale nella tempistica, fu utilizzata dall’allora segretario del Pd Renzi per indicare l’ambizione a superare alcuni steccati che avevano caratterizzato il Pd fin dalla sua costituzione: il primo era quello di accogliere culture politiche di diversa, e molto distante, estrazione che potessero contribuire al progetto di riformismo radicale esposto da Matteo Renzi; il secondo, di natura organizzativa, che mirava, allargando di fatto il gruppo dirigente anche a figure non di pura rappresentanza, a scardinare un altro pezzo di quella “ditta” che aveva subìto lo sconvolgimento del “barbaro Renzi” (definizione molto in voga negli ambienti di rito dalemiano) alla guida di un’organizzazione che, al di là della teorizzazione del “partito degli iscritti”, con tanto di primarie annesse, aveva funzionato per pure cooptazioni endogamiche.
Quel partito lo abbiamo frequentato assieme e, dunque, penso si possa convenire che, complessivamente, il tentativo culturale e, con molte più incertezze, quello organizzativo immaginato da Renzi sia fallito ben prima di una scissione che è stata tutt’altro che precipitosa. A meno che non si voglia seguire la vulgata propagandista dei detrattori a prescindere di ogni scelta riguardi Renzi e chi condivide con lui scelte e indirizzi.
Vorrei qui, quindi, ragionare sulle sollecitazioni di Romano anche perché ho sempre pensato che le critiche, soprattutto quelle che ci appaiono più urticanti e ingiuste, abbiano in sé una radice che merita di essere valutata, talvolta persino una “verità interna”, che la mia cultura politica mi impedisce di ignorare.
Mi concentro sulla liquidazione di Iv come “partito monotematico”, a fronte di una vocazione riformista generale espressa dal Pd di Renzi, che Romano vede distrutta proprio dalla nostra fuoriuscita. Egli suffraga questo giudizio di valore con il richiamo al “no tax”, che ha contraddistinto i nostri primi mesi di attività e, soprattutto, con i primi risultati emersi dai sondaggi. Non mi soffermo in questa sede su considerazioni troppo facili in merito all’arco temporale troppo breve, meno di quattro mesi, su cui giudicare la nostra azione. Piuttosto mi interessa valutare l’accusa di monotematicità.
Nel corso di questi anni, l’addebito più ricorrente fatto alla sinistra è stato esattamente l’opposto, ossia quello di cavalcare diversi temi per poi ritrarsi sulla base di considerazioni estranee al merito delle scelte da fare: una volta per senso di responsabilità verso gli impegni europei, un’altra per quelli verso la coalizione, per finire con quelli più enigmatici verso un fantomatico elettorato non ancora pronto (come se non fosse compito della politica indicare strade e soluzioni anche inedite). Gli anni del governo Renzi hanno provato a cambiare questa litania, come si è visto per esempio su lavoro e diritti civili, per poi infrangersi sulla barriera populista e conservatrice eretta per impedire la riforma costituzionale del 2016. Gli anni successivi sono stati caratterizzati da una contesa, sempre più aspra e per niente regolata da un comune senso di appartenenza allo stesso partito, che ha progressivamente rimesso il Pd sui binari da cui era partito: espulsione dell’anomalia riformista radicale; ripristino delle liturgie della ditta.
Italia viva, se ne saremo capaci, nasce per portare fino in fondo un’idea di umanesimo integrale e di riformismo radicale che si ancora a proposte concrete. Non monotematici dunque, ma sicuramente persistenti, perché per noi tradurre in senso comune le proposte politiche e persino gli slogan è più importante che guadagnare un altro po’ di tempo al governo. Sul tema delle tasse siamo partiti da risultati che hanno fatto aumentare il gettito e diminuito l’evasione, perciò oggi possiamo proporre una riforma dell’Irpef, che grava soprattutto su lavoratori dipendenti e pensionati. Su Quota 100, da abolire, e Reddito di cittadinanza, da rivedere radicalmente, come sull’autonomia, abbiamo posto classici temi della cultura riformista attenta alla solidarietà intergenerazionale e di territorio. Ma poi, se essere garantisti, chiedendo di abbandonare la follia della riforma Bonafede sulla prescrizione, possa essere considerato un altro pezzo di questo caleidoscopio di monomanie e non una rivendicazione sacrosanta, allora mi chiedo io dove sia il Pd, che ha fatto a pezzi in Parlamento, quando eravamo insieme all’opposizione, le leggi giustizialiste del governo gialloverde. Intanto ci pensano le corti di ogni sorta a smantellarle, ma così denunciano l’ipocrisia e l’inerzia della politica. La cultura riformatrice non è quella di chi mette al centro il governare per governare, ma è quella che considera il governo uno strumento per cambiare. Il potere inteso come verbo servile e non come sostantivo autoreferenziale. A maggior ragione oggi, quando la vulgata populista ha deformato il senso della parola cambiamento per mettere in scena la propria brama di potere.
Infine, quello che probabilmente per Romano è un auspicio e per altri un incubo, la possibile riunificazione sotto la grande tenda riformista del Pd. No, caro Andrea, non penso sarà questo il nostro destino. Non solo, come dice Cerasa, perché oggi siamo più utili alla causa della maggioranza nazionale e di quelle locali raccogliendo energie che altrimenti sarebbero disperse e che, in prospettiva, possono diventare numericamente il primo partito dell’area progressista e riformatrice, ma soprattutto perché finché non sarà maturo il tempo di una riforma istituzionale e di sistema, che noi abbiamo insieme fallito, è meglio costruire opzioni politiche chiare e riconoscibili per far riappassionare alla politica chi oggi ancora ne sente la mancanza. La vocazione maggioritaria nel tempo del populismo e del sovranismo è, nella migliore e più nobile delle ipotesi, un azzardo velleitario. Siccome sappiamo che oggi servono prese di posizione forti e far capire al paese cosa vogliamo fare, preferiamo parlare di Irpef, piano di investimenti e prescrizione, piuttosto che rifugiarci irenicamente nell’iperuranio delle nostre ambizioni mancate.
P.s. Decisiva mi pare l’ultima considerazione di Cerasa sulle scelte da fare sui territori. Visto che siamo tutti impegnati a sostenere Bonaccini, come prima abbiamo fatto con Sala, Nardella, Decaro e tanti altri, davvero dobbiamo ancora discutere sulla necessità di cambiare rotta al sud? E’ chiaro o no che il risultato delle politiche del 2018 è tutto scritto nel crollo elettorale delle regioni meridionali (dato incontrovertibile e non certo frutto della sola sirena del reddito di cittadinanza grillino)? Se non è stata quella una denuncia delle classi dirigenti meridionali, cos’altro dobbiamo attendere? Possiamo ancora pensare di ricandidare la stessa fallimentare classe dirigente? Noi pensiamo di no, ma aspettiamo con speranza che anche i riformisti nel Pd facciano sentire la loro voce.