Roma. Meglio rifuggire dalla politica, che è azione, perché l’azione provoca attrito e l’attrito conduce al rischio. E allora niente incontri collegiali per definire la nuova agenda di governo, per adesso, tutto rinviato, almeno per un po’. Il Pd si riunisce il 13 e il 14, in abbazia, come ai bei (brutti?) tempi di Prodi e di Gargonza, poi dovranno passare le elezioni regionali in Emilia il 27, ed ecco allora il percorso, morbido, lento, inclusivo, per puntellare il governo sulla cui stabilità (in Senato) cominciano a dubitare in tanti: le nomine pubbliche, a partire da fine febbraio (e che siano le più larghe, omnicomprensive possibili) e poi chissà anche il rimpasto. Con una variabile temuta: Renzi. Nel loro incontro privato della scorsa settimana, di cui probabilmente in realtà nessuno sa nulla che non sia insufflato dallo spin degli uffici stampa, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti pare abbiano parlato anche di un possibile rimpasto di governo, ma attribuendo – è lo spin giunto a queste colonne – l’intenzione (ostile) a Matteo Renzi, che avrebbe pure genericamente incaricato il ministro Teresa Bellanova di lanciare a breve la piccola bomba non concordata con gli alleati. Chissà. Renzi, d’altra parte, per biografia e carattere ben si presta – nel teatrino – a interpretare il ruolo di chi, volgendo le spalle e dandosi brace sul volto, trama fantasie velenose sotto la fronte liscia: la crisi di governo. Ma a che pro? Per fare cosa? E per andare dove? Solo un’alleanza con il Pd può garantire a Italia viva di partecipare con qualche profitto (i collegi uninominali) a elezioni politiche che si terrebbero a legge elettorale invariata. E solo un equilibrio ponderato tra piccole minacce e sostanziale collaborazione è propedeutico a una riforma elettorale che garantisca al meglio i partiti più piccoli.
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