Pazza terza Repubblica
Bersani, Salvini, Renzi, Meloni. Ancora non c’è il proporzionale, ma tutti si comportano come se ci fosse già. Scene
Roma. Matteo Renzi e Carlo Calenda fanno prove di convivenza osservati da Mara Carfagna. Pier Luigi Bersani è pronto a riprendersi con i vecchi compagni di quel Pd che intanto Nicola Zingaretti vuol ribattezzare. Mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni litigarellano su tutto, quasi più concorrenti che complici, più avversari che alleati. Sembrano insomma cominciate le gran danze di un ballo destinato a scomporre e ricomporre il quadro politico. O forse, più semplicemente, in tanti hanno preso a muoversi anzitempo, come se la legge proporzionale che la maggioranza ha incardinato alla Camera fosse già cosa fatta. E c’è un clima da fine epoca. La Seconda Repubblica era iniziata negli anni Novanta con i referendum maggioritari di Mario Segni, è stata la Repubblica del bipolarismo elettorale dell’Ulivo e del Polo, dell’Unione e della Cdl, fino ad accarezzare tentazioni addirittura bipartitiche quando Walter Veltroni fondò il Pd e Silvio Berlusconi gli rispose creando il Pdl dal predellino della sua automobile ferma a piazza San Babila. Quel mondo, con le sue regole e le sue consuetudini, potrebbe adesso finire con l’approvazione del sistema proporzionale, chiudendo così un’èra durata quasi trent’anni, e spalancando di fronte all’Italia politica la nuova fase, la Terza Repubblica, chissà, quella che torna al proporzionale del dopoguerra, ma senza più i partititi né le culture politiche del Dopoguerra.
Niente candidato premier sulla scheda elettorale, nessun “Berlusconi presidente”, niente coalizioni che già formate prima delle elezioni si presentano insieme al voto, ma tanti partiti-liste in concorrenza tra loro, a occupare uno spazio competitivo nella geografia dell’offerta elettorale, per poi costituire delle coalizioni di governo, ma soltanto una volta entrati in Parlamento. Un altro sport, un altro pianeta. Ma tanta è la sicurezza con la quale nel Palazzo si muovono gli architetti del proporzionale, tra cui, su tutti, Dario Franceschini, che a ogni latitudine, da destra a sinistra, sono già iniziati annusamenti e corteggiamenti, sono esplosi litigi e paure, si sono sollevati segnali di fumo e sono partiti messaggi in codice. “E’ l’ora di una cosa nuova”, diceva venerdì Bersani, non a caso, intervistato da Repubblica.
E allora chi ha da coprire uno spazio per adesso semivuoto, chi punta al centro della pista, come Renzi e come Calenda, e forse anche come Carfagna, dunque chi ritiene verosimilmente di non aver al momento abbastanza voti da superare in sicurezza quello sbarramento che la legge (non ancora nemmeno approvata) fissa al 5 per cento, ecco che si trova avvolto da una forza centripeta, quasi spinto da una naturale volontà d’affratellamento con anime consanguinee. Allo stesso modo, chi quello spazio lo occupa, ma è in difficoltà, come Forza Italia, avverte invece l’urgenza di riverniciarsi e di rilanciare l’offerta per non soccombere di fronte ai più giovani (e per adesso più piccoli) concorrenti al centro né tanto meno di fronte alle forze che si organizzano sull’ala destra. Proprio come a sinistra i partiti minori si tentano, si spiano, e osservano curiosi le non sempre chiarissime contorsioni di quel Pd che è anche lui in cerca della nuova identità nel nuovo schema di gioco. Zingaretti dice “partito nuovo”, mentre il ministro Peppe Provenzano precisa che è a sinistra che questo “partito nuovo” deve andare e infatti parla di “statuto dei lavoratori”, come nel Pci degli anni Settanta. Sicché tutto questo caos – lo stesso che i greci antichi ponevano all’inizio della creazione – spinge il vecchio Bersani a tornare sui suoi passi, e a bussare. Ed è un fermento, un ribollire, un’agitazione creativa che provoca anche attrito, ovviamente, per esempio a destra, lì dove FdI e Lega sanno di dare la caccia allo stesso elettorato, di essere piazzati in concorrenza nello stesso segmento del tavolo da gioco. Al punto che giorni fa, Giorgia Meloni, osservando gli ultimi tentativi di resistenza maggioritaria messi in campo da Salvini, avrebbe detto che “lo fa perché vede che noi stiamo crescendo”. Non si può stare in due sulla stessa mattonella. Il proporzionale già provoca matrimoni, ma anche divorzi, forse conflitti. E ancora non è nemmeno legge.