Luigi Di Maio (LaPresse)

Di Maio inaugura le mezze dimissioni

Salvatore Merlo

“Lascio”, dice il ministro degli Esteri, “ma non mollerò mai”. Nessuno lo ha trattenuto. Ora c’è Conte

Roma. “Adesso ce l’avete tutti, la cravatta. Ma all’inizio ce l’avevo solo io. Ora posso togliermela”. Era nato con la cravatta, torna descamisado come ai tempi dello stadio San Paolo di Napoli? Forse. A un certo punto infatti se la slaccia. Se la toglie, mentre chissà perché i parlamentari che lo ascoltano, e i pochi ministri che occupano i posti più defilati del tempio di Adriano, si alzano tutti in piedi, e lo applaudono cercando quel pathos, quel dramma, quella solennità tipica delle grandi sconfitte, dei passi indietro, dei momenti gravi, che in realtà però non si respira affatto. Anche perché quelle di Luigi Di Maio sono dimissioni, ma anche no. Sono le dimissioni retrattili. Anzi le mezze dimissioni. Una nuova categoria della furbizia italiana. E infatti lascia la guida politica, ma resta ministro degli Esteri, “me ne vado”, dice. “Ma non mollo”, aggiunge. “Si conclude una fase”, esclama. “Ma farò la campagna elettorale”, promette. Fino a una specie di crescendo rossiniano che lascia quasi storditi: “Non ci penso per nulla a mollare”, “sarò in Calabria e in Emilia perché non lasciamo nessuno indietro”, “ci vediamo agli stati generali”. E poi il botto finale: “Non mollerò mai”. Così, mentre lo si osserva togliersi la cravatta, tutti capiscono che già domani mattina se la rimetterà. Su piazza di Pietra, all’uscita della piccola sala del tempio di Adriano, una signora anziana si rivolge ai cronisti: “Ma s’è capito perché s’è dimesso?”.

  

E d’altra parte, ammesso che Di Maio sia uscito, c’è da dire che probabilmente in realtà non era mai nemmeno entrato. Doveva diventare leader, ma è rimasto uno che ringrazia “Beppe e Casaleggio”, doveva guidare il Movimento al governo ed è stato subito messo da parte da Giuseppe Conte, in pochi mesi la sua scommessa carismatica si è rivelata un fallimento, e adesso arriva la sanzione formale, ma senza le vette tragiche del grande crack, niente a che vedere con le dimissioni di D’Alema, di Veltroni, di Berlusconi, di Bersani, di Letta e di Renzi. Niente a che vedere con la caduta dei leader: i capelli che imbiancano, le malattie, i segni sul volto, le lacrime… Di Di Maio si è più che altro avuta l’impressione che abbia giocato: a fare l’uomo di stato con la cravatta, il ministro del Lavoro, degli Esteri, il leader politico. Intanto, mentre lui accumulava cariche, il Movimento si scaricava. Consumava, deperiva, dimezzava i voti, perdeva le elezioni amministrative e pure quelle europee. E adesso che lui si dimette – ma anche no – lo fa alla vigilia di una debacle elettorale annunciata in Emilia-Romagna. Una storia di dissipazione che ieri sera a Roma si è sciolta senza requiem di Mozart né bandiere a mezz’asta, senza paura, senza meraviglia, senza neppure quella tristezza avventurosa che accompagna le azioni gravi. D’altra parte più che di dimissioni, o mezze dimissioni, qui in realtà si parla probabilmente di uno spintonamento. Di Maio è stato cacciato per manifesta incapacità. Di buon mattino, a Montecitorio, otto ore prima delle sue quasi-dimissioni, il capogruppo del M5s alla Camera, Davide Crippa, già parlava di lui al passato. Qualche ora dopo, alle 10, in una stanza di Palazzo Chigi, i ministri raccolti attorno al dimissionario erano tutti “riconoscenti” nei suoi confronti, se non altro per il fatto che finalmente aveva annunciato loro l’intenzione di togliersi di mezzo. Nessuno ha mai provato a fermarlo.

   

E d’altra parte da una settimana Di Maio aveva fatto sapere ai ministri grillini che si sarebbe dimesso. E da circa un mese faceva uscire la notizia del suo minacciato passo indietro sui giornali, persino sul Foglio, salvo smentirli. Ecco: nessuno, o meglio nessuno che non sia un suo collaboratore stretto, lo ha pregato di resistere. Anzi. Nessuno ha mosso un dito. Perlopiù c’era chi si fregava le mani, chi sospirava, in ansia, preoccupato che la minaccia di dimissioni non si concretizzasse, specialmente tra quelli che in questi anni hanno fatto una insperata e incredibile carriera soltanto grazie a lui, come Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia. Tutti passati dalla cravatta di Luigi alla pochette di Giuseppi. Certo, tra i ministri riuniti attorno a lui, qualcuno gli ha chiesto di aspettare, “non è il momento giusto”, ma un po’ così, perché si deve, per cortesia. Solo Laura Castelli, la sottosegretaria all’Economia, piccolina e un po’ schiacciata dai colleghi maschi, a un certo punto, nel sospensivo imbarazzo di Palazzo Chigi, ha fatto partire un applauso di saluto “per Luigi”.

  

Molte pacche sulle spalle, ovviamente, strette di mano, sorrisi, parole gonfie tenute su con gli spilli d’una gentilezza bugiarda a coprire disamore e persino sollievo. Non c’è dramma, non c’è solennità, non c’è niente in queste strane mezze dimissioni di Luigi Di Maio. Né sulla scena del tempio di Adriano – “resterò qui con voi e continueremo a tenere il M5s al centro della politica per i prossimi venti anni” – né nel retroscena di Palazzo Chigi. I grillini sperano che lui scompaia, si annacqui. Lui invece conta di poter tornare come prima, anzi meglio di prima, “per difendere gli italiani dagli usurpatori”. Una specie di Conte di Montecristo, insomma. Solo che il personaggio di Dumas spariva veramente, prima di tornare a fare vendetta degli sgarbi subiti. Luigi resta ministro. Così persino la sua promessa, “rifondiamoci”, alla fine suona incongrua. Ma cosa deve rifondare Di Maio? Anche l’Italia del bis, la vecchia e solita Italia della reiterazione, qui sembra impoverita. I comunisti si abbandonarono a una più piccola Rifondazione, la Dc ha avuto il suo revival in mille partitini, dopo Craxi anche i partiti socialisti si sono riprodotti in miniatura, pure Forza Italia è (ri)tornata in scala nanometrica. Ma loro, i cinque stelle, quali valori fondanti dovrebbero richiamare per tornare alle origini? I loro migliori anni sono stati quelli del vaffanculo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.