Bologna, campagna elettorale del M5S Emilia-Romagna con Simone Benini e Luigi Di Maio (LaPresse)

Papparsi Di Maio

Valerio Valentini

La cena allegra (dei nemici) dopo l’addio e il problema di non fargli gestire il partito. Grillo, tutto a sinistra

Roma. Il clima generale era così allegro che consumato il dolce, passata la mezzanotte, si è finiti a prendere in giro le sardine: i cartonati a forma di pesce suonati a mo’ di chitarra dal candidato presidente Simone Benini, l’amico di tante battaglie Luca che imitava Mattia Santori emulandone, con una certa efficacia, la vuota retorica buonista (“Non dico per chi voto perché non voglio influenzare”). E però nel mezzo della cena, allietata anche da un “Romagna mia” intonato “alla faccia del capitone” (che sarebbe Matteo Salvini), le frasi attribuite a Beppe Grillo, e riportate ai presenti da chi col comico aveva avuto modo di confidarsi nei tribolati giorni precedenti, erano cadute con quella gravità tipica dell’ipse dixit sulla tavolata di attivisti emiliani e romagnoli: “No, non sarà Luigi Di Maio a gestire questa fase. Beppe dice che non si ricandiderà come capo politico”. Su questo, a quanto pare, l’Elevato è stato risoluto. Meno definito, invece, il suo pensiero sul prossimo leader: quel che è certo è che “il sentiero è tracciato”. Nel senso che, chiunque sia a prenderne le redini, dovrà collocare il M5s “definitivamente nel campo della sinistra, che è poi quello dove siamo nati”.

   

Ed è insomma anche in questa sala del ristorante L’insonnia, nel centro di Forlì, che passa la trasformazione del partito di maggioranza relativo, oltre che la spiegazione dell’eloquente silenzio con cui il comico ha accolto le dimissioni di Di Maio, lasciando trascorrere due giorni prima di commentare con un tweet non propriamente accorato (“Grazie Luigi per come hai gestito la situazione, per tutto quello che hai fatto per il M5s e per quello che continuerai a fare”). E’ qui che giovedì sera Benini ha voluto radunare i suoi sostenitori, impegnati in una campagna elettorale per le regionali tanto faticosa quanto inconcludente, voluta dai duri e puri del grillismo padano per “portare le nostre sentinelle in Consiglio regionale” e che rischia però di avere come unico effetto quello di sottrarre a Stefano Bonaccini quella manciata di voti decisivi. Una quarantina gli ospiti a tavola intorno al candidato, e tra questi alcuni amici intimi di Grillo come Umberto Cottafavi e il senatore Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia.

 

Anche lui ha un filo diretto con Grillo, in queste settimane. Ma più di tutti ce l’ha, a quanto pare, Paola Taverna, attiva come non mai negli ultimi giorni nel tentativo di evitare che il capo dimissionario continui a gestire la transizione da dietro le quinte, mettendo a repentaglio una stabilità di governo che già si prevede precaria, a partire da lunedì. “Certo, Di Maio non ha alcun interesse a mandare a casa l’esecutivo, visto che ora gli resta solo il ruolo da ministro”, ragionava due giorni fa in Transatlantico Lorenzo Fioramonti. “Però, in una fase come questa – proseguiva l’ex ministro grillino – le sue dimissioni equivalgono a sparare un neutrino in un acceleratore di particelle, per cui non sai quale sia davvero l’effetto”. Non lo sa davvero neppure il premier Giuseppe Conte, che osserva con malcelata apprensione le mosse del suo fu vice, e ora rivale. “Il punto è capire se Di Maio si ricandida oppure no, se fa davvero un passo indietro”, dice il sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo, uno che come pochi in questi mesi di trapasso dal grilloleghismo al demogrillismo ha saputo collocarsi esattamente a metà tra Conte e Di Maio, sopravvivendo al trapasso politico della ex ministra Elisabetta Trenta che non poca tensione ha prodotto nel M5s. “Sì, ma alla fine per noi il leader naturale resterà sempre Di Maio”, gli risponde, in mezzo al Transatlantico, Luigi Iovino, deputato napoletano che di Tofalo si considera il figlioccio politico.

 

E in fondo anche nel Pd sanno che, almeno per un po’, col ministro degli Esteri bisognerà farci i conti, almeno a giudicare dalla fermezza con cui il ministro Francesco Boccia, parlando delle trattative che seguiranno alle elezioni emiliane, afferma che “il capo del Movimento resta ancora Di Maio”. Dopotutto, quello che il titolare della Farnesina ha presentato come “un regalo” fatto al M5s, e cioè la composizione delle segreterie nazionali e regionali, appare in verità più un atto di furbizia: abdicare, cioè, solo dopo avere blindato gli organismi di vertice del M5s, subito confermati anche dal gerarca-reggente Vito Crimi. Un segretario che si dimette dopo avere di fatto nominato la segreteria? “In effetti è un ragionamento che merita una riflessione”, ammetteva mercoledì, col tono di chi vorrebbe dire di più ma si trattiene, il deputato Giuseppe Brescia. “La verità – sbuffava intanto Simone Valente, deputato ligure con simpatie pro Dibba – è che nessuno ha capito davvero cosa ha in mente Di Maio”. Grillo, invece, la sua idea se l’è fatta: stare nel centrosinistra, insieme al Pd.

Di più su questi argomenti: