Dai megafoni ai citofoni, un salto senza garanzie
Elogio dello status quo. Anche le turbolenze degli anni Sessanta finirono in riforma politica. Mentre la tendenza di cambiamento che si esprime oggi nella rivolta delle classi medie genera insicurezza democratica
Ora che è in pericolo un po’ dovunque, assalito con veemenza da quello strano animale che è il popolo nella versione dei populisti, lo status quo rifulge in tutta la sua potente geometria di bellezza. Ora che risorge il fascista europeo mai tramontato, il qualunquista soddisfatto di sé, l’antisemita per istinto, il bottegaio che diventa soggetto di valori, e si fanno sotto con strepito violento altri movimenti aggressivi dall’Emilia alla Polonia, sotto l’usbergo accattivante di Trump Putin e diversi uomini forti, ora si vede che cosa sia stata per decenni la geometria della pace, lo status quo protetto e garantito dalle élite risorte dopo la catastrofe del 1945, dopo l’inaudita stagione di carneficine e disvalori totalitari del Novecento. Ora che suonano al citofono, grande idea perversa della Bestia, è il momento di riandare alla più celebre e breve e chiara definizione di democrazia liberale: quel sistema in cui “quando suonano alla porta sei sicuro che è il lattaio”. Un commentatore sociale come Dario Di Vico, conoscitore della sociologia economica del paese, ci spiega cosa sia il corpaccione intermedio alla base del “popolo che sente e non pensa”. Un commentatore politologico come il liberale per Salvini, Giovanni Orsina, ci spiega quali siano le basi politiche della pulsione di cambiamento incarnata dai sovranisti. Bene. D’accordo. Ma nessuno ha tanta voglia di spiegarci che il muro di resistenza a questi cambiamenti, l’esercito in difficoltà dei difensori dello status quo, non è l’ostruzione di un vicolo cieco bensì la difesa di una cosa magnifica, il sistema di equilibrio e di convivenza conflittuale, ma liberale, che è prevalso dopo l’inabissamento nel nichilismo.
La lotta di classe è stata a due facce, mentre l’insorgenza delle idee di nazione, di popolo, di razza, ha sempre avuto una faccia sola, una grinta malevolente e vocata univocamente alla disfatta comune. I comunisti costruirono il loro mondo della dittatura del proletariato e del partito, generando equivoco e violenza su una scala gigantesca, ma l’altra faccia era quella della socialdemocrazia, del welfare, del popolarismo cattolico, del riformismo, del conflitto regolato e mediato da sindacati e partiti. E questa versione è quella che ha presieduto alla costruzione in Europa, sulla scia e con il consenso della democrazia americana quando era grande grossa e bella, di un’ipotesi di sviluppo e di modernizzazione buona, fondata sul libero commercio come forza unificante e sulle protezioni della tranquillità istituzionale, negoziale, senza gloria, affidata anche alla tecnica, che invece è diventata nella forma della tecnocrazia elitaria il mostro maledetto e la testa di Turco di tutti gli attaccanti dell’estremismo rossobruno. Lo status quo è poi questo. Non solo la pace tra le nazioni e i cosiddetti popoli. E’ la possibilità di scioperare per due mesi contro la riforma delle pensioni, come accade in Francia, la possibilità di agganciare altri movimenti in lotta e convergere nella contestazione del potere, di politicizzare il conflitto ma alla fine mediarlo attraverso istituzioni e parlamento. Anche le radicali turbolenze degli anni Sessanta finirono in riforma politica, generarono speranze e non abusi, i megafoni non erano citofoni, c’era un fondo libertario che confinava senza sovrapporsi con il perimetro della società aperta e libera nonostante il lungo periodo del terrorismo.
Ecco. La tendenza sediziosa e di cambiamento che si esprime nella rivolta delle classi medie genera insicurezza democratica, non ha la forza di garanzia e di inclusione che ha caratterizzato invece gli anni ruggenti e pieni di sbadigli globalizzati dello status quo. Il problema è tutto qui, e varrebbe la pena che si riflettesse su una stagione, quella trascorsa, in cui il popolo fu sbandito e riformulato come società e trama di diritti individuali e sociali, dopo gli eccessi della mobilitazione generale iniziatasi negli anni Dieci del Novecento, per non smarrire almeno il ricordo di un progetto che potremmo essere costretti a rimpiangere per lungo tempo.