Roma. Da un lato c’è la necessità della cautela, per non destabilizzare i già precari equilibri di un M5s allo sbando; dall’altro, a suggerirgli la risolutezza, ci sono l’attivismo di Matteo Renzi e l’ansia di un Pd che sempre più intende affidare a lui la responsabilità di far girare il motore dell’esecutivo. E insomma Giuseppe Conte s’è votato alla dottrina del festina lente, quella di chi sa che deve muoversi, preparare il campo per la sua iniziativa, ma al tempo stesso medita e pazienta, conscio che una mossa intempestiva farebbe precipitare tutto. Perché ormai, con Luigi Di Maio, il marcamento è a uomo: il ministro degli Esteri attende che il premier certifichi il suo connubio col Pd per poi agire di conseguenza. E Conte, che le dimissioni dell’ex capo politico le ha accolte, per bocca dei suoi collaboratori, come “una liberazione”, sa che la crisi del M5s arriverà, e solo a quel punto lui dovrà intervenire. “Non è un mistero che l’idea di Conte di posizionare il M5s nel campo progressista non rispecchi l’idea di tanti di noi”, spiega il sottosegretario Manlio Di Stefano, uno dei pretoriani di Di Maio. “Ed è certo che Luigi, agli stati generali, vorrà far sentire la sua voce, in un modo o nell’altro. Quell’appuntamento servirà a fare chiarezza una volta per tutte”. Anche a costo di non trovare una sintesi? “Costi quel che costi”, ribatte Di Stefano. Mentre il deputato Daniele Del Grosso, scherzando chissà quanto, dice che “il punto non è se il M5s resta fedele a Di Maio, il punto è capire se Di Maio resta nel M5s”.
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